L’UNIONE EUROPEA FRENA SULLA SOSTENIBILITÀ AZIENDALE: LA DIRETTIVA CSDD VERSO IL VOTO FINALE, MA RIDIMENSIONATA

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In data 15 marzo 2024, con il voto espresso dal Comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri presso l’Unione europea (COREPER), il Consiglio Europeo ha de facto dato il via libera alla direttiva sul dovere di diligenza in materia di sostenibilità aziendale (Corporate Sustainability Due Diligence Directive, CSDDD)[1].

La proposta, che era stata presentata il 23 febbraio 2022 dalla Commissione Europea, nasce come risposta dell’Unione alle istanze della società civile nella direzione di una maggiore accountability delle imprese al fine di limitare le esternalità negative, ricomprendenti questioni relative ai diritti umani, al lavoro minorile, l’inadeguatezza delle condizioni di igiene e sicurezza sul lavoro, nonché gli impatti ambientali quali le emissioni di gas a effetto serra, l’inquinamento, la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi.

Muovendo da questi intenti, il 14 dicembre 2023 era stato raggiunto, in occasione dei triloghi, l’accordo tra Consiglio e Parlamento Europeo[2], che confezionava un insieme di regole apparentemente definitive, nell’attesa dell’ultimo semaforo verde dato dall’approvazione finale.

Sulla base di detto accordo, la direttiva si sarebbe applicata nei confronti delle imprese dell’Unione e delle Società controllanti con oltre 500 dipendenti e un fatturato mondiale superiore a 150 milioni di euro, nonché alle imprese con oltre 250 dipendenti e con un fatturato superiore a 40 milioni di euro se, di questi, almeno 20 milioni sono generati in uno dei seguenti settori merceologici ad elevato impatto di sostenibilità ambientale: produzione e commercio all’ingrosso di tessuti, abbigliamento e calzature, agricoltura (inclusa silvicoltura e pesca), produzione di alimenti e commercio di materie prime agricole, estrazione e commercio all’ingrosso di risorse minerali o produzione di prodotti correlati e costruzioni.

Su queste premesse, tali imprese dovrebbero, ai sensi della direttiva, identificare, valutare, prevenire, mitigare, porre fine e rimediare al loro impatto negativo e a quello dei loro partner commerciali a monte e a valle, compresa la produzione, la fornitura, il trasporto e lo stoccaggio, il design e la distribuzione[3]. A tal fine, occorrerebbe realizzare investimenti, ottenere garanzie contrattuali dai partner, migliorare il business plan e fornire supporto ai partner delle piccole e medie imprese[4].

Tuttavia, a dispetto dell’imminente cambiamento “epocale” nelle attività di compliance a carico delle imprese, la direttiva è stata significativamente ridimensionata con il testo votato dal COREPER[5], come risultato di un necessario compromesso politico[6].

In primis, l’ambito di applicazione della direttiva è stato ristretto, e ora riguarderà solo le imprese con 1.000 dipendenti e con un fatturato pari o superiore a 450 milioni di euro. Stando alle stime della European Coalition for Corporate Justice (ECCJ), mentre la bozza originaria della direttiva CSDD avrebbe riguardato 16.000 imprese, la bozza attuale ne coprirebbe ora meno di 5.500.

In secondo luogo, la direttiva non prevede più una soglia inferiore di dipendenti per i settori merceologici, come quello agricolo, che hanno un maggiore impatto sull’ambiente. L’accordo ha peraltro ridotto le attività che saranno soggette agli obblighi di due diligence, eliminando lo smaltimento, lo smontaggio e il riciclaggio dei prodotti, nonché il compostaggio e la discarica.

Viene introdotto un approccio graduale, che prevede per le aziende con 5.000 dipendenti e un fatturato annuo di 1.500 milioni di euro un processo di applicazione di tre anni; per le aziende con 3.000 dipendenti e un fatturato di 900 milioni di euro quattro anni; per le aziende con 1.000 dipendenti e un fatturato di 450 milioni di euro cinque anni.

Infine, la definizione di catene di fornitura (supply chain) è stata ristretta: le imprese devono svolgere la due diligence solo sulle aziende con cui hanno un rapporto contrattuale “diretto”.

La direttiva sarà ora sottoposta al Parlamento europeo, il quale si riunirà nell’ultima sessione plenaria prima delle elezioni di giugno, dal 23 al 25 aprile. L’approvazione all’interno di questo deve passare attraverso la commissione per gli affari legali, comunemente nota come JURI. Nonostante si preveda un via libera, è da considerarsi la “volatilità” ed imprevedibilità dell’iter fino ad ora, tale per cui nulla è certo fino a quando non verrà effettuato il voto finale.

Il ridimensionamento della direttiva CSDD rappresenta un punto di svolta significativo nel percorso verso una maggiore responsabilità sociale delle imprese nell’Unione Europea. Se da un lato il compromesso politico che ha portato a questa riduzione del campo di applicazione potrebbe essere interpretato come un passo indietro nella lotta alla sostenibilità aziendale, dall’altro offre spunti interessanti di riflessione sul difficile equilibrio tra esigenze economiche e sociali: la decisione di rivedere al ribasso i criteri di applicazione della direttiva, potrebbe essere infatti vista come una mossa per ridurre l’onere normativo sulle imprese, soprattutto sulle PMI, permettendo loro di concentrarsi su aree specifiche di impatto ambientale e sociale. Tuttavia, ciò solleva interrogativi sulla reale influenza che tali regole potranno avere sulle pratiche aziendali.

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[1] COM(2022) 71 final del 23 febbraio 2022, Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la direttiva (UE) 2019/1937, detta Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD).

Per ulteriori informazioni si veda il nostro precedente contributo al seguente LINK.

[2] Per ulteriori informazioni si veda il seguente LINK.

[3] La direttiva introduce il concetto di due diligence aziendale al fine di integrare la sostenibilità nei modelli di governance societaria e produrre una gestione responsabilizzata in tema di impatto ambientale e sociale. Per due diligence si intende un approccio basato sul rischio, per il quale alle imprese verrebbe chiesto di porre in essere politiche proporzionali e commisurate alla probabilità e alla gravità di un potenziale impatto negativo sulla società e sull’ambiente, identificando i fattori di rischio e le singole relazioni d’affari a rischio più elevato, ed adottando misure adeguate a cercare di prevenire o mitigare gli effetti negativi.

[4] In tal senso, la direttiva, nella sua versione originaria, faceva riferimento all’intera supply chain e non soltanto agli impianti produttivi o agli asset direttamente controllati, ricomprendendo così tutte le attività di procurement, produzione, stoccaggio e distribuzione. La definizione di catena del valore e l’ampiezza del concetto di supply chain è un altro punto-chiave controverso: la decisione adottata dal Parlamento Europeo, in direzione estensiva, includeva una parte del segmento a valle delle catene del valore, in quanto una definizione più ristretta e limitata alla catena di approvvigionamento avrebbe escluso i servizi finanziari, i cui impatti negativi sono per lo più legati alle loro attività a valle. Dunque, comprendendo anche i rischi presentati dalle supply chain in chiave di risk management, rilevano la valutazione e il controllo delle attività dei fornitori, con potenziale ripensamento delle operazioni e delle modalità organizzative. Peraltro, se è vero che le piccole e medie imprese sono formalmente escluse dagli obblighi della direttiva, occorre notare che le relazioni con le imprese che vi sono soggette implicheranno oneri e correlativi costi anche per le PMI che fanno parte della filiera globale.

[5] Per la consultazione del nuovo testo, si veda il seguente LINK.

[6] In febbraio 2024, la direttiva era stata tolta dall’ordine del giorno dell’incontro dei rappresentanti permanenti presso l’Unione, poiché non si prevedeva che raggiungesse la maggioranza qualificata, dopo che la Germania aveva deciso di non sostenere la direttiva per preoccupazioni di carattere burocratico e amministrativo, in particolare per l’impatto che questa avrebbe sulle imprese. Peraltro, anche l’Italia aveva successivamente ritirato il suo sostegno, accompagnata da un tentativo dell’ultimo minuto della Francia di ridurre significativamente la portata delle nuove regole solo alle più grandi imprese dell’Unione, portando la presidenza belga del Consiglio nelle ultime settimane a cercare di raggiungere un compromesso per ottenere il sostegno sufficiente degli Stati membri per far avanzare la nuova direttiva.