MEDICINALI PER USO UMANO. LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SUL DIRITTO DEL TITOLARE DEL MARCHIO DI UN MEDICINALE DI RIFERIMENTO E DI QUELLO DI UN MEDICINALE GENERICO AD OPPORSI ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO DI QUEST’ULTIMO

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In data 17 novembre 2022, la Corte di Giustizia si è pronunciata nella Cause riunite C-253/20 e C-254/20, Impexeco N.V. e PI Pharma NV contro Novartis AG e Novartis Pharma NV, sull’interpretazione degli articoli 34 e 36 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Tali domande erano state presentate nell’ambito di due controversie tra, da un lato, la Impexeco NV (“Impexeco”) e la Novartis AG (“Novartis”) e, dall’altro, la PI Pharma NV (“PI Pharma”), la Novartis e la Novartis Pharma NV in merito alla commercializzazione in Belgio di medicinali generici importati parallelamente dai Paesi Bassi e riconfezionati in un nuovo imballaggio esterno sul quale il marchio del medicinale generico di cui la Novartis era titolare era stato sostituito da quello del medicinale di riferimento di cui quest’ultima era parimenti titolare.

Questi i fatti.

Nella Causa C‑253/20, la Impexeco aveva informato la Novartis della sua intenzione di importare dai Paesi Bassi e di immettere sul mercato belga il medicinale “Femara 2,5 mg x 100 compresse (letrozolo)” che, in realtà, era il medicinale generico “Letrozol Sandoz 2,5 mg”, commercializzato dalla Sandoz NV e riconfezionato in un nuovo imballaggio esterno sul quale la Impexeco intendeva apporre il marchio “Femara”, di cui la Novartis era titolare. Ritenendo che tale commercializzazione violasse i suoi diritti di marchio, la Novartis aveva proposto ricorso contro la Impexeco dinanzi allo Stakingsrechter te Brussel (Giudice cautelare di Bruxelles). Successivamente, tuttavia, la Impexeco aveva informato la Novartis anche riguardo alla propria intenzione di commercializzare in Belgio il medicinale “Femara 2,5 mg”, corrispondente in realtà al medicinale “Letrozol Sandoz 2,5 mg” che la Impexeco intendeva rietichettare apponendovi il marchio “Femara”.

Similmente, nella Causa C‑254/20 la PI Pharma aveva informato la Novartis della sua intenzione di importare dai Paesi Bassi e di immettere sul mercato belga il medicinale “Rilatine 10 mg x 20 compresse”, che in realtà era il medicinale generico “Metilfenidato HCl Sandoz 10 mg”, immesso in commercio dalla Sandoz BV e riconfezionato in un nuovo imballaggio esterno sul quale la PI Pharma intendeva apporre il marchio “Rilatine”, di cui la Novartis era titolare. Ritenendo che anche tale commercializzazione violasse i propri diritti di marchio, la Novartis aveva pertanto proposto un ricorso contro la PI Pharma dinanzi allo Stakingsrechter te Brussel, che aveva considerato fondati i due ricorsi ordinando la cessazione di tali pratiche.

Di conseguenza, la Impexeco e la PI Pharma avevano impugnato tali sentenze dinanzi allo Hof van beroep te Brussel (Corte d’appello di Bruxelles; il “giudice del rinvio”) che, riuniti i due procedimenti, e alla luce della necessità di interpretare la normativa europea rilevante in materia, aveva deciso di chiedere alla Corte di Giustizia se l’articolo 9, paragrafo 2[1], e l’articolo 13[2] del Regolamento n. 207/2009, nonché l’articolo 5, paragrafo 1[3], e l’articolo 7[4] della Direttiva 2008/95, letti alla luce degli articoli 34[5] e 36[6] TFUE, debbano essere interpretati nel senso che il titolare del marchio di un medicinale di riferimento e di quello di un medicinale generico può opporsi all’immissione in commercio in uno Stato Membro, da parte di un importatore parallelo, di tale medicinale generico, importato da un altro Stato Membro, qualora esso sia stato riconfezionato in un nuovo imballaggio esterno sul quale è stato apposto il marchio del corrispondente medicinale di riferimento.

La Corte ha preliminarmente ricordato che un riconfezionamento del prodotto provvisto del marchio effettuato da un terzo senza l’autorizzazione del relativo titolare è suscettibile di creare rischi reali per la garanzia di provenienza di tale prodotto[7]. Il diritto conferito dal marchio, tuttavia, non permette al suo titolare di vietare l’uso di quest’ultimo per prodotti che siano stati immessi in commercio nell’Unione con tale marchio dal titolare o con il suo consenso, di modo da conciliare gli interessi fondamentali della tutela dei diritti di marchio con quelli della libera circolazione delle merci nel mercato interno[8]. Più particolarmente, l’opposizione del titolare del marchio al riconfezionamento, costituendo una deroga alla libera circolazione delle merci, non può essere ammessa nel caso in cui l’esercizio di tale diritto da parte del titolare costituisca una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati Membri[9].

Ai sensi dell’articolo 36 TFUE, costituisce una restrizione dissimulata l’esercizio, da parte del titolare di un marchio, del proprio diritto di opporsi al riconfezionamento, qualora tale esercizio contribuisca a compartimentare artificiosamente i mercati tra gli Stati Membri, e il riconfezionamento abbia luogo in modo tale che i legittimi interessi del titolare siano rispettati, ciò che implica che il riconfezionamento non alteri lo stato originario del medicinale o non sia idoneo a nuocere alla reputazione del marchio[10]. Poiché l’impossibilità per il titolare di far valere il suo diritto di marchio per opporsi alla commercializzazione, con il suo marchio, dei prodotti riconfezionati da un importatore equivale a riconoscere a quest’ultimo una certa facoltà che, di regola, è riservata allo stesso titolare, occorre inoltre ammettere tale facoltà nell’interesse del titolare, in quanto proprietario del marchio e per proteggerlo contro qualsiasi abuso, solo se l’importatore rispetta talune altre condizioni[11]. Più particolarmente, il titolare di un marchio può legittimamente opporsi alla successiva commercializzazione in uno Stato Membro di un prodotto farmaceutico recante il suo marchio e importato da un altro Stato Membro qualora il relativo importatore lo abbia riconfezionato riapponendovi tale marchio, salvo che i) sia provato che l’esercizio del diritto di marchio da parte del suo titolare per opporsi alla commercializzazione del prodotto riconfezionato con tale marchio contribuirebbe a compartimentare artificiosamente i mercati tra Stati Membri, ii) sia provato che il riconfezionamento non può alterare lo stato originario del prodotto contenuto nella confezione, iii) siano indicati chiaramente sulla confezione l’autore del riconfezionamento del prodotto e il nome del fabbricante di quest’ultimo, iv) la presentazione del prodotto riconfezionato non sia tale da poter nuocere alla reputazione del marchio e a quella del suo titolare, e v) l’importatore, prima di mettere in vendita il prodotto riconfezionato, ne dia avviso al titolare del marchio e gli fornisca, a sua richiesta, un campione del prodotto riconfezionato[12].

Secondo la Corte, contribuisce ad una compartimentazione artificiosa dei mercati tra gli Stati Membri l’opposizione del titolare del marchio al riconfezionamento di medicinali qualora quest’ultimo sia necessario perché il prodotto importato parallelamente possa essere commercializzato nello Stato Membro di importazione[13]. Tale condizione è soddisfatta, in particolare, quando le circostanze sussistenti al momento della commercializzazione nello Stato Membro d’importazione ostacolano l’immissione in commercio del medicinale nella stessa confezione in cui quest’ultimo è commercializzato nello Stato Membro di esportazione, rendendo così oggettivamente necessario il riconfezionamento perché il medicinale interessato possa essere commercializzato in tale Stato dall’importatore parallelo[14]. Tale condizione, invece, non è soddisfatta se il riconfezionamento del prodotto si spiega esclusivamente col desiderio da parte dell’importatore parallelo di conseguire un vantaggio commerciale[15].

Contribuisce ad una compartimentazione artificiosa dei mercati tra Stati Membri anche il fatto che il titolare di un marchio, che commercializza un medicinale identico con marchi diversi a seconda dello Stato Membro in cui tale medicinale è commercializzato, si opponga alla sostituzione del marchio utilizzato nello Stato Membro di esportazione con quello utilizzato da tale titolare nello Stato Membro d’importazione, qualora tale sostituzione sia obiettivamente necessaria affinché detto medicinale possa essere commercializzato in quest’ultimo Stato dall’importatore parallelo[16]. Nel caso concreto, tuttavia, i medicinali oggetto del commercio parallelo sono medicinali generici, mentre i marchi apposti sulle nuove confezioni esterne di tali medicinali da parte degli importatori paralleli interessati sono quelli dei corrispondenti medicinali di riferimento, ciò che rende necessario esaminare se tali medicinali possano essere considerati identici.

A tale proposito, la composizione del medicinale generico può essere diversa da quella del medicinale di riferimento per quanto riguarda la forma farmaceutica, la forma chimica del principio attivo e i suoi eccipienti. Per motivi medici, inoltre, può essere controindicato sostituire durante il trattamento un medicinale con un medicinale equivalente, sia esso un medicinale di riferimento o un medicinale generico. Di conseguenza, considerare che, essendo equivalenti da un punto di vista terapeutico, un medicinale di riferimento e il suo omologo generico costituiscono prodotti identici rischierebbe di indurre in errore gli operatori sanitari e i pazienti quanto alla composizione esatta del medicinale interessato, con conseguenze potenzialmente gravi per la salute di questi ultimi. Solo un medicinale identico sotto tutti gli aspetti ad un altro medicinale, pertanto, può formare oggetto di riconfezionamento in una nuova confezione esterna sulla quale è stato apposto il marchio di tale altro medicinale, ciò che può verificarsi, in particolare, nel caso di un medicinale di riferimento e di un medicinale generico fabbricati dalla stessa entità o da entità economicamente collegate e che, in realtà, costituiscono un unico prodotto commercializzato con due regimi diversi. In un caso del genere, infatti, né la differenza del regime giuridico applicabile a tali medicinali, né il diverso modo in cui essi sono percepiti dagli operatori sanitari o dai pazienti possono giustificare il fatto che il titolare dei marchi interessati possa opporsi alla sostituzione del marchio che egli utilizza nello Stato Membro di esportazione con quello che appone sui medicinali che commercializza nello Stato Membro di importazione, se è dimostrato che tale sostituzione è obiettivamente necessaria per consentire a tali medicinali di essere commercializzati in quest’ultimo Stato.

L’opposizione del titolare del marchio alla sostituzione di quello di un medicinale generico immesso in commercio nello Stato Membro di esportazione con quello del corrispondente medicinale di riferimento commercializzato nello Stato Membro di importazione costituisce un ostacolo all’accesso effettivo del medicinale interessato al mercato di quest’ultimo Stato se il medicinale di cui trattasi non può essere commercializzato nello Stato Membro di importazione con il suo marchio originario, rendendo così oggettivamente necessaria la sostituzione di quest’ultimo al fine di garantire la libera circolazione di tale medicinale nel mercato interno. Di conseguenza, in una situazione del genere il titolare di un marchio non può opporsi alla sua sostituzione da parte di un importatore parallelo qualora quest’ultimo riesca a dimostrare che le circostanze esistenti al momento della commercializzazione del prodotto di cui trattasi rendono oggettivamente necessaria la sostituzione del marchio originario con quella dello Stato Membro d’importazione ai fini dell’immissione in commercio di detto prodotto in tale Stato[17] e qualora, d’altro canto, il riconfezionamento avvenga in modo tale che i legittimi interessi del titolare vengano rispettati[18]. Viceversa, quando l’importatore parallelo è in grado di commercializzare detto prodotto con il suo marchio originario adattando, se del caso, l’imballaggio al fine di soddisfare le esigenze del mercato dello Stato Membro d’importazione, la condizione relativa alla necessità non è soddisfatta, in quanto non vi è una minaccia sostanziale alla libera circolazione delle merci, che è alla base del principio dell’esaurimento del diritto di marchio nel commercio tra gli Stati Membri.

Tutto ciò premesso, la Corte ha statuito che:

L’articolo 9, paragrafo 2, e l’articolo 13 del regolamento (CE) n. 207/2009 del Consiglio, del 26 febbraio 2009, sul marchio dell’Unione europea, come modificato dal regolamento (UE) 2015/2424 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2015, nonché l’articolo 5, paragrafo 1, e l’articolo 7 della direttiva 2008/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2008, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, letti alla luce degli articoli 34 e 36 TFUE, devono essere interpretati nel senso che il titolare del marchio di un medicinale di riferimento e del marchio di un medicinale generico può opporsi all’immissione in commercio in uno Stato membro, da parte di un importatore parallelo, di tale medicinale generico, importato da un altro Stato membro, qualora detto medicinale sia stato riconfezionato in un nuovo imballaggio esterno sul quale è stato apposto il marchio del corrispondente medicinale di riferimento, a meno che, da un lato, i due medicinali siano identici sotto tutti gli aspetti e, dall’altro, la sostituzione del marchio soddisfi le condizioni di cui al punto 79 della sentenza dell’11 luglio 1996, Bristol-Myers Squibb e a. (C 427/93, C 429/93 e C‑436/93, EU:C:1996:282), al punto 32 della sentenza del 26 aprile 2007, Boehringer Ingelheim e a. (C‑348/04, EU:C:2007:249), nonché al punto 28 della sentenza del 17 maggio 2018, Junek Europ-Vertrieb (C‑642/16, EU:C:2018:322).

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[1] Regolamento (CE) n. 207/2009 del Consiglio, del 26 febbraio 2009, sul marchio, GUUE L 78 del 24.03.2009. L’articolo 9 del regolamento, intitolato “Diritti conferiti dal marchio UE”, al paragrafo 2 dispone: “… Fatti salvi i diritti dei titolari acquisiti prima della data di deposito o della data di priorità del marchio UE, il titolare del marchio UE ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio, in relazione a prodotti o servizi, qualsiasi segno quando:

a) il segno è identico al marchio UE ed è usato in relazione a prodotti e servizi identici ai prodotti o ai servizi per i quali il marchio UE è stato registrato;
b) il segno è identico o simile al marchio UE ed è usato in relazione a prodotti e a servizi identici o simili ai prodotti o ai servizi per i quali il marchio UE è stato registrato, se vi è rischio di confusione da parte del pubblico; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione tra segno e marchio;
c) il segno è identico o simile al marchio UE, a prescindere dal fatto che sia usato per prodotti o servizi identici, simili o non simili a quelli per i quali il marchio UE è stato registrato, se il marchio UE gode di notorietà nell’Unione e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio UE o reca pregiudizio agli stessi…”.

[2] L’articolo 13 del Regolamento 207/2009, intitolato “Esaurimento del diritto conferito dal marchio UE”, dispone: “Il diritto conferito dal marchio UE non permette al titolare di impedirne l’uso per prodotti immessi in commercio nello Spazio economico europeo con tale marchio dal titolare stesso o con il suo consenso.

Il paragrafo 1 non si applica quando sussistono motivi legittimi perché il titolare si opponga alla successiva immissione in commercio dei prodotti, in particolare quando lo stato dei prodotti è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio…”.

[3] Direttiva 2008/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2008, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, GUUE L 299 del 08.11.2008. L’articolo 5 della Direttiva, intitolato “Diritti conferiti dal marchio di impresa”, al paragrafo 1 dispone: “Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio:

a) un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui è stato registrato;
b) un segno che, a motivo dell’identità o della somiglianza col marchio di impresa e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico, compreso il rischio che si proceda a un’associazione tra il segno e il marchio di impresa…”.

[4] L’articolo 7 della Direttiva 2008/95/CE, intitolato “Esaurimento del diritto conferito dal marchio di impresa”, dispone: “Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare l’uso del marchio di impresa per prodotti immessi in commercio nella Comunità con detto marchio dal titolare stesso o con il suo consenso.

Il paragrafo 1 non si applica quando sussistono motivi legittimi perché il titolare si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato dei prodotti è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio…”.

[5] L’articolo 34 TFUE dispone: “… Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente…”.

[6] L’articolo 36 TFUE: “… Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri…”.

[7] CGUE 17.05.2018, Causa C‑642/16, Junek Europ‑Vertrieb, punto 23.

[8] CGUE 20.12.2017, Causa C‑291/16, Schweppes, punto 35.

[9] CGUE 17.05.2018, Causa C‑642/16, Junek Europ‑Vertrieb, punto 25.

[10] CGUE 17.05.2018, Causa C‑642/16, Junek Europ‑Vertrieb, punto 26; CGUE 10.11.2016, Causa C‑297/15, Ferring Lægemidler, punto 16.

[11] CGUE 28.07.2011, Cause riunite C‑400/09 e C‑207/10, Orifarm e a., punto 26.

[12] CGUE 17.05.2018, Causa C‑642/16, Junek Europ‑Vertrieb, punto 28.

[13] CGUE 26.04.2007, Causa C‑348/04, Boehringer Ingelheim e a., punto 18.

[14] CGUE 10.11.2016, Causa C‑297/15, Ferring Lægemidler, punto 20.

[15] CGUE 26.04.2007, Causa C‑348/04, Boehringer Ingelheim e a., punto 37.

[16] CGUE 12.101999, Upjohn, Causa C‑379/97, punti 19 e 38-40.

[17] Ibidem, punti 42-43.

[18] CGUE 28.07.2011, Cause riunite C‑400/09 e C‑207/10, Orifarm e a., punto 24.