CONTRAFFAZIONE ONLINE: CYBERSQUATTING E KEY ADVERTISING NEL CONTESTO NAZIONALE ED EUROPEO

marketude EU and Competition, Giacomo Vacca, Intellectual Property, Publications, Roberto A. Jacchia

In un mercato dematerializzato e in continua evoluzione come quello online, le imprese investono ingenti risorse nella valorizzazione della propria immagine attraverso la tutela dei marchi e dei segni distintivi, destinati a consentire il riconoscimento da parte dei consumatori dei loro prodotti e servizi. Si comprende, allora, come l’utilizzo su Internet di un marchio (o di altro segno distintivo), e in particolare di un marchio altrui da parte di un concorrente, debba essere adeguatamente regolamentato per poter, da una parte, garantire il corretto funzionamento concorrenziale del mercato e, dall’altra, prevenire fenomeni contraffattivi.

Non tutti gli utilizzi non autorizzati di un marchio altrui online configurano però atti di contraffazione o concorrenza sleale, che, in linea di principio, si verificano unicamente laddove l’utilizzo del marchio altrui possa generare confusione tra i consumatori. Fanno eccezione i fenomeni di utilizzo non autorizzato dei marchi notori altrui, la cui illiceità prescinde dal requisito della confusione, e può manifestarsi come diluizione (dilution) o svilimento (tarnishment) del segno con finalità parassitarie. Le principali pratiche diffuse in rete sono il cybersquatting e il key advertising.

Cybersquatting

Il cybersquatting consiste nella registrazione in malafede come nome a dominio di un marchio o di un altro segno distintivo (spesso notorio) altrui, al solo fine di sfruttarne la notorietà o di trarre un ingiusto profitto a danno del soggetto titolare del corrispondente diritto di privativa, e si concretizza principalmente in alcune fattispecie distinte. Tra queste, è comune il domain squatting, che consiste nella registrazione di nuovi nomi a dominio che sono identici o simili ai marchi di un’altra impresa. Il combo squatting, invece, si riferisce alla registrazione di nuovi nomi a dominio creati aggiungendo parole a nomi a dominio già registrati. Tale pratica si differenzia a sua volta dal typo squatting, ovvero dalla registrazione di nuovi nomi a dominio con lettere trasposte o comuni errori di ortografia di nomi a dominio già registrati. Infine, integrano fenomeni di cybersquatting i cd. doppelganger domains, i quali si configurano con la registrazione di un nuovo nome a dominio che omette il punto tra il subdomain e il second-level domain.

La rilevanza di questi fenomeni è attestata da un recente report dell’EUIPO del maggio 2021, dal quale è emerso che, dei nomi a dominio analizzati, ben il 49% rifletteva condotte di cybersquatting e che il settore maggiormente colpito era quello della moda e del lusso (66%)[1].

Non è immediata la collocazione giuridica del cybersquatting quale pratica illecita, in quanto esso non viene esplicitamente menzionato dal legislatore nei codici e nelle leggi complementari a motivo della sua novità oggettiva e cronologica. Tuttavia, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel fare riferimento al Codice della proprietà intellettuale e industriale (“cpi”) e al Regolamento di assegnazione e gestione dei nomi a dominio nel ccTLD.it[2], così come alla disciplina della concorrenza sleale contenuta nel Codice civile (“cc”), in aggiunta alle figure di illecito contraffattorio previste dal Codice penale (“cp”).

In particolare, l’art. 22 cpi, in base al principio di unitarietà dei segni distintivi, vieta di adottare, come nome a dominio di un sito, un segno uguale o simile a un marchio altrui, laddove possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico. Allo stesso modo, rilevano gli artt. 20 e 21 cpi, in quanto la pratica commerciale scorretta del contraffattore possa alterare il comportamento o le decisioni del consumatore medio. In caso di violazione, l’art. 118, comma 6 cpi permette all’autorità di registrazione di revocare e trasferire all’avente diritto il nome a dominio registrato in mala fede. Inoltre, lo stesso Codice prevede, in caso di procedimenti d’urgenza, di ricorrere all’art. 133 cpi per ottenere l’inibitoria dell’uso nell’attività economica del nome a dominio illegittimamente registrato, nonché il suo trasferimento provvisorio. A queste misure si aggiunge la possibilità per il titolare del marchio di richiedere il risarcimento del danno subito, nonché la restituzione dei profitti dall’autore della violazione ex art. 125 cpi.

Quanto al Codice civile, il cybersquatting viene fatto comunemente ricadere nelle condotte di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 cc, tutelando il titolare del marchio dal il rischio di confusione, dallo sviamento della clientela e/o da forme di approfittamento parassitario.

Infine, gli artt. 473, 474, 517-ter e 517-quater cp riconoscono le ipotesi in cui le attività di cybersquatting integrano fattispecie di reato, in presenza di contraffazione di marchi (o altri segni distintivi) o di fabbricazione e commercio di beni realizzati in violazione dei titoli di proprietà industriale altrui.

Key advertising

Il key advertising si riconduce ai casi in cui, nel digitare parole chiave (keywords) su un motore di ricerca, al consumatore che desidera navigare sulla pagina web del soggetto che realizza un determinato prodotto – o che risponde ad una certa ditta o denominazione – appare anche la pagina o l’inserzione pubblicitaria di un soggetto terzo, spesso con ranking preminente, che utilizza quei termini solo come meta-tag con la funzione di proporsi per primo al navigatore.

Le attività di key advertising sono rese possibili anche dai vari servizi di posizionamento (il più noto dei quali è GoogleADS), i quali offrono a qualsiasi operatore economico, dietro corrispettivo, la possibilità di scegliere una o più keywords e di far apparire in primo piano un c.d. link sponsorizzato che rinvii al proprio sito ogni volta in cui una delle parole chiave prescelte coincida con quella digitata/utilizzata dall’utente. Nel caso in cui più operatori scelgano la medesima parola chiave, sarà il titolare del servizio di posizionamento a decidere le modalità che verranno impiegate per determinare l’ordine degli annunci, spesso ricorrendo a procedure d’asta determinate dal c.d. “prezzo massimo per click” che l’inserzionista ha dichiarato di essere disposto a pagare al momento della stipula del contratto con il motore.

L’indirizzo consolidato della giurisprudenza nazionale ed europea sul tema è quello secondo cui costituisce contraffazione di marchio l’uso dello stesso come keyword o meta-tag da parte di un soggetto non autorizzato, unicamente qualora tale uso possa compromettere una delle funzioni caratteristiche del marchio: vale a dire, provenienza, investimento e pubblicità. In particolare, si verifica l’illecito qualora l’uso concreto che si fa del marchio altrui non consenta – o consenta soltanto difficilmente – all’utente (normalmente informato e attento) di comprendere se i prodotti o i servizi cui l’annuncio si riferisce provengano dal titolare del marchio, da un’impresa ad esso collegata o da un terzo. Responsabili per tale condotta sono sia l’inserzionista, sia il gestore del servizio di posizionamento (quest’ultimo, in linea di principio, se rimane inerte dopo esserne stato avvertito o diffidato dal titolare).

Viceversa, nel caso in cui l’annuncio o l’inserzione pubblicitaria non abbia l’effetto finale di indurre in confusione il consumatore[3], ma solo di proporre allo stesso un’alternativa rispetto al prodotto ricercato, la condotta dovrà ritenersi lecita in quanto espressione della libera concorrenza tra imprese[4]. Il requisito della confusorietà è, peraltro, attenuato o non necessario in presenza di marchi celebri, anche ad efficacia extra-merceologica, in cui è sufficiente che l’utilizzo non autorizzato si traduca in un annacquamento o svilimento del segno.

In una decisione recente del 27 aprile 2021[5], il Tribunale di Bari ha confermato questa ricostruzione, esprimendosi sull’uso del marchio “Interflora”. Nel caso di specie, la ricorrente aveva constatato che, digitando in rete il termine “Interflora” (da cui prendeva il nome la società), compariva – oltre al proprio annuncio pubblicitario – anche un’inserzione rimandante a una società concorrente. Il Tribunale ha valutato tale condotta come illegittima, in quanto produttiva di un effetto confusorio con il marchio della ricorrente e, pertanto, ha vietato alla resistente di utilizzare tra le proprie keywords il termine “Interflora”, così da impedire l’accostamento, che aveva peraltro ad oggetto prodotti e servizi identici a quelli protetti dal marchio registrato. Secondo la motivazione del Tribunale, l’uso del marchio “Interflora” come keyword pregiudicava la funzione principale del marchio di garantire la provenienza dei prodotti o servizi e la loro qualità, così arrecando pregiudizio all’immagine e alla fiducia riposta dai consumatori nel marchio.

Per quanto concerne l’inquadramento giuridico del key advertising, valgono le stesse considerazioni esposte sul cybersquatting: esso si qualifica come pratica di concorrenza sleale e lesiva dei diritti assoluti conferiti al titolare del marchio, con le specifiche caratteristiche che si sono menzionate.

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[1] EUIPO, Focus on Cybersquatting: Monitoring and Analysis, Maggio 2021. Disponibile qui.

[2] Regolamento di assegnazione e gestione dei nomi a dominio nel ccTLD.it. Disponibile qui.

[3] Sul punto si vedano Trib. Milano, 31.10.2018; Trib. Milano, 14.12.2015 e Trib. Milano, 01.07.2015, n. 8150.

[4] Secondo la sentenza CGUE, 22 settembre 2011, Causa C-323/09, Interflora v. Marks & Spencer plc e Flowers Direct Online Ltd, par. 81: “…qualora l’uso, come parola chiave, di un segno corrispondente ad un marchio che gode di notorietà faccia comparire un annuncio pubblicitario che consente ad un utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento di comprendere che i prodotti o i servizi offerti non provengono dal titolare del marchio che gode di notorietà, ma al contrario da un concorrente di quest’ultimo, si dovrà concludere che la capacità distintiva di tale marchio non è stata ridotta da detto uso, essendo quest’ultimo semplicemente servito ad attirare l’attenzione dell’utente di Internet sull’esistenza di un prodotto o di un servizio alternativo rispetto a quello del titolare del marchio in questione”.

[5] Trib. Bari, 27.04.2021.