Conformemente al Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di disciplina delle relazioni commerciali concernenti la cessione di prodotti agricoli e alimentari[1], in data 25 maggio 2021 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) si è pronunciata in merito alle denunce rivolte dalla Confederazione Italiana Agricoltori Puglia (“CIA Puglia”)[2] e dal Comitato Liberi Agricoltori e Commercianti Pugliesi e Lucani (“Comitato”)[3] nei confronti della Special New Fruit Licensing Ltd. (“SNFL”)[4] e di altri produttori (c.d. “breeder”)[5] attivi nella coltivazione e commercializzazione di uva da tavola senza semi (c.d. “seedless” o “uva apirene”) brevettata in Italia, per pratiche commerciali scorrette relative alle fasi di distribuzione e vendita.
Oltre a segnalarsi per la stretta connessione tra profili di proprietà intellettuale e di concorrenza, la decisione dell’AGCM rappresenta probabilmente una delle ultime del suo genere, in quanto fondata sulla disciplina di cui all’articolo 62 del c.d. “Decreto Cresci Italia” (Decreto-Legge 24 gennaio 2012, n.1, convertito dalla Legge 24 marzo 2012, n. 27)[6] che, a partire dal 1o novembre 2021, verrà sostituito dalla c.d. “Direttiva UTP” (Unfair Trading Practices Directive)[7], recentemente trasposta in Italia[8] tramite la legge di delegazione europea 2019-2020[9].
Questi i fatti.
La filiera dell’uva apirene si caratterizza per la presenza di società breeder, titolari dei diritti di proprietà intellettuale sui diversi cultivar brevettati, che concedono in licenza d’uso i vitigni a licenziatari, che possono essere sia produttori agricoli, che soggetti imprenditoriali che si occupano della distribuzione e commercializzazione dell’uva da tavola. In quest’ultimo caso, il licenziatario stipula, direttamente o per conto del breeder, un contratto di sub-licenza con il produttore/agricoltore, che diviene il proprietario dei frutti mentre la pianta rimane di proprietà del breeder per tutta la durata del contratto. A fronte della concessione della licenza d’uso dei vitigni, la remunerazione dei breeder è costituita da un corrispettivo fisso una tantum (c.d. “fee”) calcolato per singola pianta al momento dell’impianto del vitigno, e da un corrispettivo variabile calcolato in percentuale sul fatturato (c.d. “royalty annuale”) realizzato dalla vendita del raccolto. La fee iniziale per singola pianta viene corrisposta al breeder direttamente dal produttore, ove sia il licenziatario, o dal distributore licenziatario, che a sua volta la riscuote dal coltivatore con cui stipula un contratto di sub-licenza.
Secondo la CIA Puglia e il Comitato, il sistema posto in essere dai breeder denunciati presentava criticità tali da consentire loro di controllare tutta la filiera produttiva dell’uva apirene brevettata e non la sola propagazione delle piante su cui detengono i diritti di privativa, con ciò violando l’articolo 13 del Regolamento 2100/94[10]. Più particolarmente, secondo i denuncianti, non vi sarebbe alcuna base giuridica per la registrazione, da parte dei breeders, di un marchio per la commercializzazione dell’uva prodotta dai relativi vitigni, per il cui utilizzo viene richiesto ai produttori il pagamento di royalties annuali determinate sulla base dei quantitativi di uva prodotta; di talché, imponendo un pagamento ulteriore rispetto a quello dovuto per l’impianto dei vitigni, essi abuserebbero dei diritti loro riconosciuti dalla privativa brevettuale, in quanto i limiti dell’esclusiva si arresterebbero all’uso dei materiali di propagazione. In secondo luogo, i denuncianti avevano evidenziato come i contratti dei breeder non potessero essere configurati come contratti di affitto, in quanto il vitigno in sé non può costituire un bene fruttifero se non quando è impiantato nel terreno. Il pagamento di una fee al solo momento dell’impianto, e non di un canone mensile o annuale, dimostrerebbe che non si tratta di un contratto di affitto, e bensì di cessione di beni. Tali contratti, in ogni caso, sarebbero contrari alla disciplina civilistica, che imporrebbe l’identificazione dell’oggetto del contratto con il bene, alla stregua di una prestazione di dare. Limitare l’oggetto dei contratti unicamente all’affitto di piante/varietà vegetali, e non anche alla cessione dei frutti che tali piante producono, non sarebbe conforme al quadro giuridico di riferimento.
Per contro, il gruppo SNFL e gli altri breeders avevano contestato l’applicabilità dell’articolo 62 del Decreto Cresci Italia alla fattispecie sostenendo che i) esso sarebbe applicabile solamente all’ipotesi di cessione di beni, mentre i contratti in essere tra breeders e produttori attengono a rapporti di affitto dei vitigni la cui proprietà rimane in capo ai primi, non trattandosi, pertanto, di cessione di beni ai sensi del diritto civile, ii) esso non si applicherebbe in caso di conferimento di prodotti agricoli alle OP da parte di coltivatori che risultano soci delle organizzazioni stesse, e iii) non ricorrerebbe alcuno squilibrio contrattuale tra i breeder e i singoli produttori e, nei casi di rapporto trilatero, neppure tra licenziatari e produttori, presupposto fondamentale per l’applicabilità del comma 2 dell’articolo[11].
Secondo l’AGCM, la tesi del gruppo SNFL e degli altri breeders secondo cui non si tratterebbe di contratti di cessione di beni o prodotti agricoli ma di contratti di affitto di beni fruttiferi (i vitigni) non può essere condivisa alla luce della tipologia del contratto in questione. Sebbene la proprietà formale delle piante rimanga in capo ai breeders, queste ultime sono cedute in licenza o sub-licenza ai coltivatori per tutta la durata della loro vita produttiva al fine di consentire agli stessi di sfruttarne integralmente la capacità di fruttificazione; si tratta, pertanto, di una cessione di fatto delle piante ai coltivatori, in termini di coltivazione, gestione e sfruttamento che, a prescindere dalla figura giuridica utilizzata, è suscettibile di rientrare nella fattispecie di cui all’articolo 62 del Decreto Cresci Italia. A tal proposito, inoltre, nulla proverebbe il fatto che nei casi di risoluzione del contratto sia richiesta la distruzione o la restituzione delle viti, dato che il bene non ritornerebbe, se non in linea teorica, nella disponibilità del breeder, rilevando al contrario la circostanza che il pagamento per lo sfruttamento dei vitigni avviene una tantum, in sede di impianto, e non richiede il pagamento di canoni mensili o annuali, come nei contratti di affitto e/o locazione.
La tesi del gruppo SNFL e degli altri breeders sulla non applicabilità dell’articolo 62 ai rapporti interni alle OP, invece, appare connaturata all’essenza stessa di queste ultime, sorte quali strumento di rafforzamento e protezione della posizione degli agricoltori all’interno della filiera produttiva al fine di aumentare il potere contrattuale dei coltivatori diretti nei confronti dell’industria di trasformazione e dei retailer[12], limitando così il fenomeno della polverizzazione ed incentivandone l’aggregazione. Di conseguenza, l’articolo 62 si pone come strumento di tutela degli agricoltori alternativo alla protezione loro conferita dalla stessa adesione ad una OP, la cui organizzazione è precipuamente volta alla tutela dei coltivatori. Sarebbe, allora, da escludere in radice la possibilità che il meccanismo di funzionamento delle OP possa dar luogo ad una delle fattispecie vietate dall’articolo 62 quali, appunto, l’imposizione di condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose.
Secondo l’AGCM, infine, il caso concreto attiene alle relazioni commerciali tra fornitori di particolari varietà tutelate da brevetto ed i produttori agricoli, non riguardando la tipologia più comune dei casi di violazione dell’articolo 62, che interessano i rapporti tra gli agricoltori e i primi acquirenti di prodotti. Di conseguenza, l’accertamento dello squilibrio contrattuale non può prescindere da un’analisi della struttura dell’offerta del bene oggetto della presunta violazione. A tal proposito, considerato il limitato posizionamento detenuto a livello nazionale nella produzione di uva senza semi, i breeders denunciati ed i loro licenziatari, lungi dal rappresentare partner obbligati per la produzione di uva apirene, costituiscono piuttosto una delle possibili alternative rispetto alla produzione di uva senza semi di altri breeders o di uva non tutelata da privativa brevettuale. Di talché, un produttore che intenda coltivare uva senza semi e che non sia soddisfatto delle condizioni contrattuali richieste dal gruppo SNFL e dagli altri breeders per la sottoscrizione di un contratto di licenza d’uso dei propri vitigni ha a disposizione un’ampia gamma di possibilità, non risultando pertanto dipendente dalle condizioni contrattuali da costoro definite.
Alla luce di quanto detto, l’AGCM non ha ritenuto sussistenti i requisiti richiesti dalla legge per ritenere che le condotte commerciali contestate al gruppo SNFL ed agli altri breeders costituiscano una violazione dell’articolo 62, comma 2, del Decreto Cresci Italia.
[1] Delibera AGCM 6 febbraio 2013, n.24220 – Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di disciplina delle relazioni commerciali concernenti la cessione di prodotti agricoli e alimentari. L’articolo 4 del Regolamento, intitolato “Istanza di intervento”, al paragrafo 1 dispone: “… Fatta salva la possibilità per l’Autorità di intervenire d’ufficio, ogni soggetto, organizzazione o organismo che ne abbia interesse può richiedere, attraverso comunicazione in formato cartaceo o elettronico (PEC), l’intervento dell’Autorità nei confronti di relazioni commerciali in materia di cessioni di prodotti agricoli ed alimentari, la cui consegna avvenga nel territorio italiano, che risultino connotate da un significativo squilibrio nelle rispettive posizioni di forza commerciale…”.
All’intervento dell’AGCM può conseguire l’applicazione delle sanzioni di cui ai commi 5-7 dell’articolo 62 del Decreto Cresci Italia.
[2] La CIA Puglia è la federazione operativa nella Regione Puglia della Confederazione Italiana Agricoltori, che associa oltre 370.000 imprese agricole su base nazionale operando attraverso federazioni regionali, unioni provinciali, uffici di zona e delegazioni comunali, nonché attraverso federazioni di categoria e di prodotto.
[3] Il Comitato rappresenta circa 80 produttori agricoli di uva da tavola ed è stato costituito al fine di tutelare i produttori dalle condotte sleali e da comportamenti anticoncorrenziali posti in essere nel settore ortofrutticolo per preservare i diritti di coltivazione e commercializzazione delle specialità ortofrutticole.
[4] La SNFL è una società con sede nel Regno Unito, che opera a livello internazionale nella creazione, sviluppo e commercializzazione di varietà senza semi di uva da tavola, sulle quali vanta diritti di privativa brevettuale.
[5] Nello specifico la Sun World International LLC. (“Sun World”), la AVI S.r.l. (“AVI”), la International Fruit Genetics LLC. (“IFG”) e la Grapa Varieties Ltd. (“Grapa”).
[6] Decreto-legge 24 gennaio 2012, n.1, Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, GU n. 19 del 24.01.2012.
[7] Direttiva (UE) 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, GUUE L 111 del 25.04.2019.
[8] Per ulteriori informazioni si veda il nostro precedente contributo, disponibile al seguente LINK.
[9] Legge 22 aprile 2021, n. 53, Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2019-2020, GU n. 97 del 23.04.2021.
[10] Regolamento (CE) n. 2100/94 del Consiglio, del 27 luglio 1994, concernente la privativa comunitaria per ritrovati vegetali, GUUE L 227 del 01.09.1994. L’articolo 13 del Regolamento, intitolato “Diritti dei titolari della privativa comunitaria per ritrovati vegetali e atti vietati”, ai paragrafi 1-2 dispone: “… In virtù della privativa comunitaria per ritrovati vegetali il titolare o i titolari di tale privativa, in appresso denominati «il titolare», hanno facoltà di effettuare in ordine alle varietà gli atti elencati al paragrafo 2.
Fatte salve le disposizioni degli articoli 15 e 16, gli atti indicati in appresso effettuati in ordine a costituenti varietali, o al materiale del raccolto della varietà protetta, in appresso denominati globalmente «materiali», richiedono l’autorizzazione del titolare:
- produzione o riproduzione (moltiplicazione),
- condizionamento a fini di moltiplicazione,
- messa in vendita,
- vendita o altra commercializzazione,
- esportazione dalla Comunità,
- importazione nella Comunità,
- magazzinaggio per uno degli scopi di cui alle lettere da a) a f).
Il titolare può subordinare la sua autorizzazione a determinate condizioni e limitazioni…”.
[11] L’articolo 62 del Decreto Cresci Italia, intitolato “Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari”, al paragrafo 2 dispone: “… Nelle relazioni commerciali tra operatori economici, ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei beni di cui al comma 1, è vietato:
- imporre direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, nonché condizioni extracontrattuali e retroattive;
- applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti;
- subordinare la conclusione, l’esecuzione dei contratti e la continuità e regolarità delle medesime relazioni commerciali alla esecuzione di prestazioni da parte dei contraenti che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l’oggetto degli uni e delle altre;
- conseguire indebite prestazioni unilaterali, non giustificate dalla natura o dal contenuto delle relazioni commerciali;
- adottare ogni ulteriore condotta commerciale sleale che risulti tale anche tenendo conto del complesso delle relazioni commerciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento…”.
[12] Decreto Legislativo 27 maggio 2005, n. 102, Regolazioni dei mercati agroalimentari, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera e), della legge 7 marzo 2003, n. 38, GU n. 137 del 15 giugno 2005, L’articolo 2 del Decreto, intitolato “Organizzazioni di produttori”, al comma 1 dispone: “… Le organizzazioni di produttori hanno come scopo principale la commercializzazione della produzione dei produttori aderenti per i quali sono riconosciute ed in particolare di:
- assicurare la programmazione della produzione e l’adeguamento della stessa alla domanda, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo;
- concentrare l’offerta e commercializzare direttamente la produzione degli associati;
- partecipare alla gestione delle crisi di mercato;
- ridurre i costi di produzione e stabilizzare i prezzi alla produzione;
- promuovere pratiche colturali e tecniche di produzione rispettose dell’ambiente e del benessere degli animali, allo scopo di migliorare la qualità delle produzioni e l’igiene degli alimenti, di tutelare la qualità delle acque, dei suoli e del paesaggio e favorire la biodiversità, nonché favorire processi di rintracciabilità, anche ai fini dell’assolvimento degli obblighi di cui al regolamento (CE) n. 178/2002;
- assicurare la trasparenza e la regolarità dei rapporti economici con gli associati nella determinazione dei prezzi di vendita dei prodotti;
- realizzare iniziative relative alla logistica; h)adottare tecnologie innovative;
- favorire l’accesso a nuovi mercati, anche attraverso l’apertura di sedi o uffici commerciali…”.