SERVIZI DI COMPARAZIONE DEGLI ACQUISTI. LA CORTE DI GIUSTIZIA CONFERMA LA SENTENZA DEL TRIBUNALE E LA SANZIONE INFLITTA A GOOGLE

marketude Contenzioso, Diritto Europeo e della Concorrenza, Marco Stillo, Pubblicazioni, Società

In data 10 settembre 2024, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata nella Causa C-48/22 P, Google LLC, in e Alphabet, Inc. contro Commissione europea, sul ricorso con cui la Google LLC (“Google”) e la Alphabet Inc. (“Alphabet”) chiedevano l’annullamento della sentenza del Tribunale dell’Unione europea[1] che aveva annullato l’articolo 1 della Decisione C(2017) 4444 final della Commissione[2] unicamente nella misura in cui quest’ultima aveva constatato una violazione dell’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e dell’articolo 54 dell’Accordo sullo Spazio economico europeo (SEE) su tredici mercati nazionali della ricerca generale all’interno del SEE sulla base dell’esistenza degli effetti anticoncorrenziali ivi riscontrati.

Questi i fatti.

A seguito di numerose segnalazioni da parte di imprese e consumatori, in data 30 novembre 2010 la Commissione aveva avviato un procedimento nei confronti di Google che si era concluso con la Decisione C(2017) 4444 final, con la quale era stata comminata all’impresa statunitense un’ammenda record pari a circa 2,42 miliardi di euro per aver abusato della sua posizione dominante nei mercati della ricerca generale su internet e della ricerca specializzata di prodotti riservando nelle sue pagine generali dei risultati di ricerca un trattamento più favorevole, in termini di posizionamento e di visualizzazione, al proprio servizio di acquisti comparativi rispetto ai servizi dei suoi competitors. Di conseguenza, Google si era rivolta al Tribunale dell’Unione, che tuttavia aveva confermato l’intero importo dell’ammenda inflitta dalla Commissione[3]. Google, pertanto, aveva adito la Corte di Giustizia deducendo quattro motivi di impugnazione.

Con il primo motivo di impugnazione, Google sosteneva che il Tribunale aveva commesso un errore di diritto in quanto aveva ritenuto che la Commissione non fosse tenuta, al fine di determinare l’esistenza del presunto abuso, ad applicare i c.d. “criteri Bronner”[4].

Secondo la Corte, tuttavia, l’imposizione di tali criteri era giustificata dalle circostanze proprie del caso concreto, che consistevano nel rifiuto, da parte di un’impresa dominante, di dare accesso a un concorrente ad un’infrastruttura da essa sviluppata per le esigenze della propria attività, ad esclusione di qualsiasi altro comportamento. Laddove un’impresa dominante, invece, concede l’accesso alla propria infrastruttura subordinando lo stesso, nonché la fornitura di servizi o la vendita di prodotti, a condizioni inique, i criteri Bronner non si applicano. Più particolarmente, qualora l’accesso ad una simile infrastruttura, o persino ad un servizio o ad un componente, sia indispensabile per consentire ai concorrenti dell’impresa dominante di operare in modo redditizio su un mercato a valle, è tanto più probabile che pratiche inique su tale mercato avranno effetti anticoncorrenziali quanto meno potenziali, costituendo pertanto un abuso ai sensi dell’articolo 102 TFUE. Nel caso di pratiche diverse da un rifiuto di accesso, invece, l’assenza di tale indispensabilità non è di per sé decisiva ai fini dell’esame di condotte potenzialmente abusive da parte di un’impresa dominante[5]. Sebbene comportamenti del genere possano infatti configurare una forma di abuso allorché sono idonei a produrre effetti anticoncorrenziali almeno potenziali, o addirittura di esclusione, sui mercati interessati, essi non possono essere equiparati ad un rifiuto puro e semplice di consentire ad un concorrente di accedere ad un’infrastruttura, in quanto l’autorità garante della concorrenza o il giudice nazionale competente non dovrà obbligare l’impresa dominante a consentire l’accesso alla propria infrastruttura, dato che quest’ultimo è stato ormai concesso. Di conseguenza, le misure che verranno adottate in tale contesto saranno meno lesive della libertà contrattuale dell’impresa dominante e del suo diritto di proprietà che non il fatto di costringerla a dare accesso alla sua infrastruttura quando essa la riservava per le esigenze della propria attività[6].

Poiché, pertanto, Google concede ai comparatori di prodotti concorrenti accesso al suo servizio di ricerca generale e alle pagine di risultati generali, ma lo assoggetta a condizioni discriminatorie, i criteri Bronner non si applicano al comportamento in questione, di talché il Tribunale aveva correttamente considerato che la Commissione non era incorsa in alcun errore di diritto astenendosi dal valutare se quest’ultimo soddisfacesse tali criteri. Di conseguenza, il primo motivo di impugnazione dev’essere respinto.

Con la prima parte secondo motivo, Google sosteneva che il Tribunale aveva commesso un errore di diritto ritenendo che le circostanze specifiche indicate nella sua sentenza[7] fossero rilevanti per determinare se la condotta in questione costituisse una concorrenza basata sui meriti.

La Corte ha preliminarmente ricordato che pur facendo pesare sulle imprese in posizione dominante la responsabilità particolare di non pregiudicare, con il loro comportamento, una concorrenza effettiva e non falsata nel mercato interno, l’articolo 102 TFUE sanziona non già l’esistenza stessa di una posizione dominante, e bensì il suo sfruttamento abusivo[8]. Più particolarmente, per poter essere classificato come sfruttamento abusivo di una posizione dominante ai sensi dell’articolo 102 TFUE è necessario dimostrare che, ricorrendo a mezzi diversi da quelli che regolano la concorrenza basata sui meriti tra le imprese, un comportamento abbia come effetto concreto o potenziale di limitare tale concorrenza, escludendo imprese concorrenti altrettanto efficaci dal mercato o dai mercati interessati o impedendone lo sviluppo su tali mercati[9]. Questa dimostrazione, tuttavia, deve essere effettuata, in tutti i casi, valutando tutte le circostanze pertinenti, indipendentemente dal fatto che esse riguardino il comportamento stesso, il mercato o i mercati in questione o il funzionamento della concorrenza su questo o questi mercati. Tale dimostrazione, inoltre, deve cercare di stabilire, fondandosi su elementi di analisi e di prova precisi e concreti, che comportamento in questione ha, quanto meno, la capacità di produrre effetti di esclusione dal mercato[10]. A tale riguardo, al di là dei soli comportamenti che hanno per effetto, concreto o potenziale, di restringere la concorrenza basata sui meriti, estromettendo imprese concorrenti parimenti efficaci dal mercato o dai mercati interessati, possono essere qualificati come sfruttamento abusivo di una posizione dominante anche comportamenti rispetto ai quali ne sia dimostrato come effetto concreto o potenziale, od anche come obiettivo, quello di impedire in una fase preliminare, mediante la creazione di barriere all’ingresso o il ricorso ad altre misure ostruttive o ad altri mezzi diversi da quelli che regolano la concorrenza basata sui meriti, ad imprese potenzialmente concorrenti anche solo di accedere a detto o a detti mercati, impedendo in tal modo lo sviluppo della concorrenza su questi mercati a danno dei consumatori e limitando negli stessi la produzione, lo sviluppo di prodotti o di servizi alternativi[11].

Tutto ciò premesso, secondo la Corte le circostanze prese in considerazione dal Tribunale non attengono ai soli effetti delle pratiche in questione o agli elementi che le accompagnano, essendo al contrario idonee a caratterizzare l’esistenza di pratiche che non rientrano in una concorrenza basata sui meriti. Tali circostanze, infatti, erano pertinenti per qualificare in diritto tali pratiche, in quanto consentivano di collocarle nel contesto dei due mercati interessati e del funzionamento della concorrenza su tali mercati ed erano quindi idonee a dimostrare che i potenziali effetti di esclusione sul mercato a valle nonché il successo del servizio di comparazione dei prodotti di Google su tale mercato dopo la loro attuazione erano dovuti non ai meriti di tale servizio, e bensì a queste stesse pratiche combinate alle circostanze specifiche rilevate. Di conseguenza, il Tribunale non aveva commesso alcun errore, e pertanto la prima parte del secondo motivo deve essere respinta.

Con la seconda e la terza parte del secondo motivo, invece, Google sosteneva che il Tribunale aveva commesso un errore nell’adottare, per quanto riguarda la deviazione dai mezzi di concorrenza basata sui meriti, elementi di motivazione che non figuravano nella Decisione C(2017) 4444 final, sostituendo così il proprio ragionamento a quello della Commissione.

Secondo la Corte, tuttavia, non risulta che il Tribunale abbia aggiunto una qualificazione del comportamento in questione a quella adottata dalla Commissione, limitandosi a confermarne la valutazione secondo cui le pratiche esaminate, che si traducevano in atti positivi di discriminazione nel trattamento dei risultati del comparatore di prodotti di Google, costituivano una forma autonoma di abuso mediante un effetto leva a partire da un mercato dominato, caratterizzato da forti barriere all’ingresso, ossia quello dei servizi di ricerca generale. Sebbene, inoltre, il Tribunale avesse svolto alcune considerazioni che non emergevano dalla motivazione della Decisione C(2017) 4444 final, le stesse erano stata formulate unicamente ad abundantiam, e pertanto anche la seconda e la terza parte del secondo motivo devono essere respinte.

Con la prima parte del terzo motivo, Google sosteneva che i) il Tribunale aveva commesso un errore di diritto discostandosi illegittimamente dalla Decisione C(2017) 4444 final e ritenendo che quest’ultima aveva preso in considerazione effetti anticoncorrenziali potenziali e non reali, ii) indipendentemente dalla questione se gli effetti del comportamento in discussione fossero reali o potenziali, qualsiasi valutazione di questi ultimi avrebbe richiesto che la Commissione intraprendesse un’analisi controfattuale, in quanto la stessa è inerente alla nozione di causalità, e iii) contrariamente a quanto risulta della sentenza del Tribunale, esistevano nel caso concreto scenari controfattuali fondati su contesti reali, ossia gli sviluppi dei mercati simili negli Stati Membri nei quali la Commissione non aveva individuato abusi.

Secondo la Corte, tuttavia, il Tribunale aveva ritenuto che la Commissione, al termine di un’analisi in più fasi e sulla base di una motivazione argomentata, avesse dedotto l’esistenza di potenziali effetti anticoncorrenziali sui mercati dei servizi di comparazione di prodotti fondandosi su elementi concreti relativi all’evoluzione del traffico dalle pagine di risultati generali di Google verso i comparatori di prodotti concorrenti e verso il proprio comparatore di prodotti, e alla quota rappresentata da tale traffico in quello totale dei comparatori di prodotti concorrenti. Così facendo, pertanto, il Tribunale non si era discostato dalla Decisione C(2017) 4444 final, in quanto gli effetti anticoncorrenziali ivi considerati rimanevano potenziali pur essendo dedotti dagli elementi concreti relativi all’evoluzione del traffico. Statuendo che, nell’ambito della ripartizione dell’onere della prova, un’impresa può far valere un’analisi controfattuale al fine di contestare la valutazione della Commissione degli effetti potenziali o reali del comportamento in questione, inoltre, il Tribunale non aveva né invertito l’onere della prova che incombe su quest’ultima per quanto riguarda l’obbligo di dimostrare il nesso di causalità tra il comportamento in questione e i suoi effetti, né escluso l’utilità di un’analisi controfattuale, limitandosi piuttosto a constatare che la Commissione può basarsi su un insieme di elementi probatori senza essere tenuta a ricorrere sistematicamente ad uno strumento unico per dimostrare l’esistenza di un tale nesso di causalità. Il Tribunale, infine, si era limitato a constatare che esisteva un nesso di causalità tra la visibilità di un sito internet all’interno dei risultati generici di Google, dipendente dagli algoritmi di classificazione di questi ultimi, e l’importanza del traffico dagli risultati verso tale sito, una constatazione che non contraddiceva la sua valutazione su ciò che avrebbe potuto costituire uno scenario controfattuale appropriato nel caso concreto. Di conseguenza, la prima parte del terzo motivo deve essere respinta.

Con la seconda parte e la terza del terzo motivo, invece, Google contestava la qualificazione giuridica di ciò che costituirebbe, per il Tribunale, uno scenario controfattuale corretto qualora un abuso comporti una combinazione di due pratiche. L’approccio errato del Tribunale sullo scenario controfattuale, inoltre, avrebbe invalidato sia la sua valutazione degli effetti del comportamento in questione, portandolo ad imputare all’asserito abuso effetti che erano imputabili a pratiche lecite, sia la valutazione della giustificazione oggettiva addotta da Google secondo cui non sarebbe stato possibile migliorare il suo servizio di ricerca se i risultati dei comparatori di prodotti concorrenti fossero stati inclusi nelle c.d. “boxes”.

Secondo la Corte, tuttavia, il ragionamento del Tribunale non è viziato da alcun errore di diritto, in quanto solo la combinazione delle due pratiche in questione aveva influenzato il comportamento degli utenti in modo tale da sviare il traffico in provenienza dalle pagine di risultati generali di Google a vantaggio del suo comparatore di prodotti e a scapito dei comparatori di prodotti concorrenti. Tale sviamento del traffico, pertanto, si basava tanto sul posizionamento e sulla presentazione preferenziali dei risultati di ricerca del comparatore di prodotti di Google nelle boxes quanto sulla parallela retrocessione effettuata dagli algoritmi di aggiustamento e sulla presentazione meno attraente dei risultati di ricerca dei comparatori di prodotti concorrenti, ciò che faceva sfuggire questi ultimi all’attenzione degli utenti. Di conseguenza, poiché l’aumento del traffico a favore dei risultati di ricerca del comparatore di prodotti di Google e la riduzione di quello dalle sue pagine di risultati generali verso i comparatori di prodotti concorrenti, sui quali si basano i potenziali effetti anticoncorrenziali del comportamento in questione, derivavano da un’applicazione congiunta delle due pratiche, uno scenario controfattuale appropriato doveva altresì consentire di esaminare la probabile evoluzione del mercato in assenza di queste due pratiche e non soltanto in assenza di una di esse, così che anche la seconda e la terza parte del terzo motivo devono essere respinte.

Con il quarto motivo, infine, Google sosteneva che il Tribunale aveva commesso un errore di diritto nel ritenere che la Commissione non era tenuta ad analizzare l’efficacia dei competitors, reali o ipotetici, di Google in sede di valutazione della capacità del comportamento in questione di estromettere la concorrenza sui mercati interessati.

La Corte ha preliminarmente ricordato che sebbene l’obiettivo dell’articolo 102 TFUE non sia quello di garantire che concorrenti meno efficaci dell’impresa in posizione dominante rimangano sul mercato, da ciò non deriva che qualsiasi constatazione di un’infrazione alla luce di tale disposizione sia subordinata alla dimostrazione che il comportamento in questione è idoneo ad estromettere un concorrente altrettanto efficace. Più particolarmente, la valutazione della capacità del comportamento in questione di estromettere un concorrente altrettanto efficace appare pertinente qualora l’impresa in situazione dominante abbia sostenuto, nel corso del procedimento amministrativo, che il suo comportamento non ha avuto la capacità di restringere la concorrenza e di produrre gli effetti estromessivi addebitati. In un caso del genere, infatti, la Commissione è non soltanto tenuta ad analizzare l’importanza della posizione dominante dell’impresa sul mercato di riferimento, è bensì anche a valutare l’eventuale esistenza di una strategia volta ad estromettere i concorrenti almeno altrettanto efficaci[12]. Poiché è tenuta a dimostrare la violazione dell’articolo 102 TFUE, inoltre, la Commissione deve stabilire l’esistenza di un abuso di posizione dominante alla luce di diversi criteri quali, tra gli altri, quello del c.d. “concorrente altrettanto efficiente” (as efficient competitor test, AEC)[13], mentre la sua valutazione in merito alla pertinenza di un tale criterio è, se del caso, soggetta al controllo del giudice dell’Unione.

Tutto ciò premesso, nel caso concreto la Commissione aveva constatato che, nella misura in cui la capacità di un comparatore di prodotti di competere dipendeva dal traffico, il comportamento discriminatorio di Google aveva avuto un impatto significativo sulla concorrenza in quanto aveva consentito a quest’ultima di sviare, a beneficio del proprio comparatore di prodotti, un’ampia parte del traffico precedentemente esistente tra le pagine di risultati generali di Google stessa ed i comparatori di prodotti appartenenti ai suoi competitors, senza che questi ultimi potessero compensare tale perdita di traffico con il ricorso ad altre fonti, poiché un maggiore investimento in fonti alternative non avrebbe costituito una soluzione economicamente sostenibile. Il Tribunale, pertanto, aveva convenientemente indicato che non sarebbe stato possibile per la Commissione ottenere risultati obiettivi ed affidabili riguardo all’efficacia dei concorrenti di Google alla luce delle condizioni specifiche del mercato in questione, di talché lo stesso non era incorso in alcun errore di diritto statuendo, da un lato, che un siffatto criterio non rivestiva carattere imperativo nell’ambito dell’attuazione dell’articolo 102 TFUE e, dall’altro, che, nelle circostanze del caso concreto, esso non sarebbe stato pertinente. Di conseguenza, anche il quarto motivo deve essere respinto e, con esso, il ricorso nella sua interezza.

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[1] Tribunale 10.11.2021, Causa T-612/17, Google LLC, in precedenza Google Inc. e Alphabet, Inc. contro Commissione europea.

[2] Dec. Comm. C(2017) 4444 final, del 27 giugno 2017, relativa a un procedimento a norma dell’articolo 102 TFUE e dell’articolo 54 dell’Accordo SEE, Caso AT.39740 – Google Search (Shopping).

[3] Per ulteriori informazioni si veda il nostro precedente contributo, disponibile al seguente LINK.

[4] CGUE 26.11.1998, Causa C‑7/97, Bronner. Nello specifico, affinché il rifiuto, da parte di un’impresa in posizione dominante, di concedere l’accesso ad un servizio possa costituire un abuso ai sensi dell’articolo 102 TFUE è necessario che i) il rifiuto possa eliminare del tutto la concorrenza nel mercato da parte del richiedente il servizio, ii) il rifiuto non sia oggettivamente giustificabile, e iii) il servizio in questione sia, di per sé, indispensabile per l’esercizio dell’attività del richiedente.

[5] CGUE 25.03.2021, Causa C‑152/19 P, Deutsche Telekom/Commissione, punto 50; CGUE 25.03.2021, Causa C‑165/19 P, Slovak Telekom/Commissione, punto 50.

[6] CGUE 25.03.2021, Causa C‑152/19 P, Deutsche Telekom/Commissione, punto 51; CGUE 25.03.2021, Causa C‑165/19 P, Slovak Telekom/Commissione, punto 51.

[7] Ossia i) l’importanza del traffico generato dal motore di ricerca generale di Google per i comparatori di prodotti, ii) il comportamento degli utenti quando effettuano ricerche su internet, e iii) l’impatto del traffico sviato.

[8] CGUE 21.12.2023, Causa C‑333/21, European Superleague Company, punto 128.

[9] Ibidem, punto 129.

[10] Ibidem, punto 130.

[11] Ibidem, punto 131.

[12] CGUE 06.09.2017, Causa C‑413/14 P, Intel/Commissione, punti 138-139.

[13] Il test AEC fa riferimento a diversi criteri utilizzati per valutare la capacità di una prassi di produrre effetti preclusivi anticoncorrenziali, facendo riferimento all’idoneità di un ipotetico concorrente dell’impresa in posizione dominante, altrettanto efficiente in termini di struttura dei costi, a proporre ai clienti una tariffa tanto vantaggiosa da indurli a cambiare fornitore, nonostante gli svantaggi generati, senza che ciò lo porti a subire perdite.