SANZIONI DISCIPLINARI SPORTIVE E DIRITTO EUROPEO. IL RINVIO PREGIUDIZIALE DEL TAR LAZIO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA

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In data 6 giugno 2024, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR) ha sollevato dinnanzi alla Corte di Giustizia tre questioni pregiudiziali relative alla compatibilità della disciplina nazionale in materia di sanzioni disciplinari sportive[1] con il diritto europeo. Le questioni traevano origine dal ricorso con cui due ex membri del Consiglio di Amministrazione della FC Juventus Spa(“Juventus”) chiedevano, da un lato, l’annullamento di alcune decisioni della giustizia sportiva che avevano comportato, nei loro confronti, l’inibizione temporanea dall’esercizio delle loro funzioni nell’ambito della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e, dall’altro, il risarcimento dei danni subiti.

Questi i fatti.

In data 1 aprile 2022, la Procura Federale della FIGC aveva deferito i ricorrenti dinnanzi al Tribunale Federale Nazionale contestando alla Juventus e ad altri club di aver violato gli articoli 6[2] e 31, comma 1[3], del Codice di Giustizia Sportiva (CGS) indicando, in 15 operazioni, un valore dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori superiore al reale, che era stato alterato al solo fine di determinare maggiori plusvalenze fittizie. Poiché, tuttavia, il Tribunale aveva prosciolto tutti i soggetti deferiti, la Procura Federale aveva presentato reclamo dinnanzi alla Corte Federale di Appello, che lo aveva parimenti respinto. La Procura Federale aveva pertanto proposto un ricorso per revocazione parziale, che la Corte Federale di Appello aveva accolto inibendo i ricorrenti dallo svolgere attività in ambito FIGC per 2 anni, di talché gli stessi avevano adito il Collegio di Garanzia dello Sport che, tuttavia, ne aveva respinto il ricorso confermando l’inibizione nei loro confronti.

Tutto ciò premesso, i ricorrenti avevano deciso di rivolgersi al TAR Lazio sostenendo che la normativa nazionale e le deliberazioni del giudice sportivo siano in contrasto con le norme di diritto europeo. Più particolarmente, escludendo il potere caducatorio del giudice amministrativo in ordine alle sanzioni disciplinari sportive, la normativa in materia di ordinamento sportivo[4] si porrebbe in contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale e con il diritto ad un ricorso effettivo cosi come previsti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)[5] e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[6]. La disciplina nazionale, inoltre, non sarebbe conforme all’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), in quanto il potere disciplinare attribuito alla FIGC è privo di criteri sufficientemente definiti e trasparenti, creando così il rischio di un suo esercizio arbitrario o discriminatorio. La disciplina nazionale, infine, non sarebbe conforme nemmeno all’articolo 101 TFUE, in quanto mancherebbero criteri e regole procedimentali dettagliate, adeguate ad assicurare che le decisioni in materia disciplinare della giustizia sportiva siano trasparenti, oggettive, determinate, non discriminatorie e proporzionate.

Di conseguenza, i ricorrenti avevano sollevato la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in quanto i) la sanzione in questione sarebbe non soltanto estranea all’ordinamento sportivo ed ai poteri che la legge riconosce agli organi della giustizia sportiva italiana, e bensì anche in contrasto con i principi e le libertà previste dal diritto europeo, e ii) il rimedio del giudice amministrativo italiano non dovrebbe essere limitato alla sola tutela risarcitoria per equivalente, di talché egli dovrebbe poter annullare e sospendere la sanzione disciplinare irrogata dal giudice sportivo che si riveli illegittima.

Con la prima questione, il TAR Lazio chiede se, alla luce degli articoli 6[7] e 19, paragrafo 1[8], TUE e dell’articolo 47 della Carta, il quadro normativo attualmente in vigore nell’ordinamento italiano sia compatibile col principio di effettività della tutela giurisdizionale di posizioni giuridiche soggettive ricadenti nel diritto europeo.

La questione trova la sua ratio nel fatto che la giurisprudenza nazionale sembra confermare l’idea per cui il giudice amministrativo non può annullare o sospendere i provvedimenti sanzionatori amministrativi emanati dalla giustizia sportiva. Secondo la Corte Costituzionale, infatti, laddove il provvedimento adottato dalle federazioni sportive o dal CONI abbia incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, e bensì il conseguente risarcimento del danno, deve essere proposta innanzi al giudice amministrativo[9]. Tale posizione era stata successivamente ribadita sia dalla Corte stessa, che aveva confermato la ragionevolezza del bilanciamento tra l’effettività della tutela giurisdizionale e l’autonomia dell’ordinamento sportivo, giustificando la limitazione della tutela giurisdizionale alla sola pretesa risarcitoria[10], che dalla Corte di Cassazione, secondo cui l’esclusione della diretta giurisdizione sugli atti attraverso i quali sono state irrogate le sanzioni disciplinari, a tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, consente di agire in giudizio per ottenere il conseguente risarcimento del danno a chi lamenti la lesione di una situazione soggettiva giuridicamente rilevante[11].

Secondo il TAR Lazio, tuttavia, impedendo al giudice statale di annullare o sospendere le sanzioni disciplinari irrogate dai giudici sportivi, la normativa italiana in materia di ordinamento e giustizia sportiva sarebbe in contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale, un principio fondamentale che assicura la necessaria corrispondenza tra la tutela delle situazioni giuridiche sostanziali, attribuite ai singoli da norme promananti dall’ordinamento dell’Unione, e quella di situazioni giuridiche processuali, funzionali al soddisfacimento degli interessi sottesi alle prime[12]. Nel caso di sanzioni interdittive, il cui effetto afflittivo consiste nell’impedire lo svolgimento di specifiche condotte, per un periodo di tempo di durata significativa, ad un manager di livello apicale di società quotata in borsa operante nel settore produttivo dello sport, pertanto, il mero rimedio risarcitorio per equivalente pecuniario, in forma di tutela obbligatoria, non può essere considerato equivalente alla rimozione della sanzione, quale tutela risarcitoria in forma specifica e reale.

Con la seconda questione, invece, il TAR Lazio chiede se la normativa nazionale in materia di sanzioni disciplinari sportive sia compatibile con il principio di legalità della sanzione[13].

Alla luce di quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a partire dalla c.d. “sentenza Engel”[14], il cui principio fa parte del diritto europeo come principio generale, infatti, le sanzioni che presentano carattere afflittivo, pur se non qualificate formalmente come penali negli ordinamenti degli Stati Membri, devono ricadere nell’ambito delle garanzie convenzionali previste per queste ultime. Il principio di legalità in materia di reati, inoltre, ha tra i propri corollari quelli di tassatività e sufficiente determinatezza del precetto e della sanzione penale, che assicurano ai consociati la prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie condotte.

Con la terza questione, infine, il TAR Lazio chiede se l’ordinamento sportivo e la legge italiana siano compatibili con le libertàfondamentali dell’individuo, ed in particolare quelle di circolazione[15] e di concorrenza, garantite dai Trattati nel mercato interno, a fronte delle sanzioni irrogate dai giudici sportivi italiani quali soggetti dello sport nazionale.

Benché, infatti, le decisioni assunte dalle associazioni di diritto privato organizzatrici delle competizioni calcistiche, quali la FIGC, possono essere qualificate quali “decisioni di associazioni di imprese” ai sensi dell’art. 101 TFUE[16], il potere disciplinare conferito alla FIGC non sembra essere collocato in un quadro di criteri sostanziali che sia trasparente, determinato e preciso in quanto nel Decreto-legge 220/2003 manca qualsiasi riferimento ai criteri sostanziali sulla base dei quali la giustizia sportiva è ammessa all’esercizio del potere disciplinare.

La palla passa ora alla Corte di Giustizia, chiamata a chiarire se la normativa italiana, che limita l’intervento del giudice amministrativo sulle sanzioni disciplinari sportive permettendo unicamente una tutela risarcitoria per equivalente, sia compatibile con i principi fondamentali del diritto dell’Unione Europea.

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[1] Decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220, Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva, GU n. 192 del 20.08.2003.

[2] L’articolo 6 del CGS, intitolato “Responsabilità della società” dispone: “… Le società, i dirigenti e tutti i soggetti dell’ordinamento sportivo devono improntare la propria condotta ai principi di lealtà, correttezza e probità in ogni rapporto riferibile all’attività sportiva.

La società risponde ai fini disciplinari dell’operato dei dirigenti, dei tesserati e dei soggetti di cui all’art. 2, comma 2.

Le società rispondono anche dell’operato e del comportamento dei propri dipendenti, delle persone comunque addette a servizi della società e dei propri sostenitori, sia sul proprio campo, intendendosi per tale anche l’eventuale campo neutro, sia su quello della società ospitante, fatti salvi i doveri di queste ultime.

La società risponde della violazione delle norme in materia di ordine e sicurezza per fatti accaduti prima, durante e dopo lo svolgimento della gara, sia all’interno del proprio impianto sportivo, sia nelle aree esterne immediatamente adiacenti. La mancata richiesta dell’intervento della Forza pubblica comporta, in ogni caso, un aggravamento delle sanzioni.

La società si presume responsabile degli illeciti sportivi commessi a suo vantaggio da persone che non rientrano tra i soggetti di cui all’art. 2 e che non hanno alcun rapporto con la società. La responsabilità è esclusa quando risulti o vi sia un ragionevole dubbio che la società non abbia partecipato all’illecito…“.

[3] L’art. 31 del CGS, intitolato “Violazioni in materia gestionale ed economica”, al paragrafo 1 dispone: “… Costituisce illecito amministrativo la mancata produzione, l’alterazione o la falsificazione materiale o ideologica, anche parziale, dei documenti richiesti dagli organi di giustizia sportiva, dalla Commissione di Vigilanza sulle Società di Calcio Professionistiche (COVISOC) e dagli altri organi di controllo della Federazione nonché dagli organismi competenti in relazione al rilascio delle licenze UEFA e FIGC, ovvero il fornire informazioni mendaci, reticenti o parziali. Costituiscono altresì illecito amministrativo i comportamenti comunque diretti a eludere la normativa federale in materia gestionale ed economica nonché la mancata esecuzione delle decisioni degli organi federali competenti in materia. Salva l’applicazione delle più gravi sanzioni previste dalle norme in materia di licenze UEFA o da altre norme speciali, nonché delle più gravi sanzioni che possono essere irrogate per gli altri fatti previsti dal presente articolo, la società che commette i fatti di cui al presente comma è punibile con la sanzione dell’ammenda con diffida…“.

[4] L’articolo 2 del Decreto-legge 220/2003, intitolato “Autonomia dell’ordinamento sportivo”, al paragrafo 1 dispone: “… In applicazione dei principi di cui all’articolo 1, è riservata all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto:

a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;

b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive…”.

[5] L’articolo 6 CEDU, intitolato “Diritto a un equo processo”, al paragrafo 1 dispone “… Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia…”.

[6] L’articolo 47 della Carta, intitolato “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”, dispone: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.

Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare.

A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia…”.

[7] L’articolo 6 TUE dispone: “… L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.

Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati.

I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.

L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati.

I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali…”.

[8] L’articolo 19 TUE al paragrafo 1 dispone: “… La Corte di giustizia dell’Unione europea comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati. Assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati.

Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione…”.

[9] Corte costituzionale 07.02.2011, Sentenza n. 49/2011.

[10] Corte costituzionale 23.07.2019, Sentenza n. 160/2019.

[11] Corte di Cassazione 05.07.2018, Sentenza n. 33536/2018.

[12] CGUE 21.12.2021, Causa C-497/20, Randstad Italia SpA contro Umana SpA e a.

[13] L’articolo 49 della Carta, intitolato “Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene”, dispone: “Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima.

Il presente articolo non osta al giudizio e alla condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali riconosciuti da tutte le nazioni.

Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato…”.

[14] ECHR 08.06.1976, Cause 5100/71, 5101/71, 5102/71, 5354/72 e 5370/72, Engel e altri contro Paesi Bassi.

[15] L’articolo 45 della Carta, intitolato “Libertà di circolazione e di soggiorno”, dispone: “Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

La libertà di circolazione e di soggiorno può essere accordata, conformemente ai trattati, ai cittadini dei paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio di uno Stato membro…”.

[16] CGUE 21.12.23, Causa C-333/21, European Superleague Company SL, punto 87.