In data 27 gennaio 2025, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato nei confronti della Sentenza n. 72/2021 della Corte d’appello di Ancona relativa a dei provvedimenti di sospensione cautelare dal servizio e dalla retribuzione nonché sospensione con riferimento a due procedimenti disciplinari avviati dall’azienda ospedaliera “Ospedali Riuniti Marche Nord” (“ASUR Marche”) nei confronti di un suo dipendente.
La decisione della Corte è particolarmente rilevante in quanto verte altresì sull’utilizzo dell’istituto del c.d. “whistleblowing” e rappresenta, pertanto, uno dei primi provvedimenti dove si analizza l’utilizzo di tale canale in un’ottica giuslavoristica.
Più particolarmente, nell’ambito del primo procedimento (che è quello su cui ci concentreremo in questo articolo) veniva contestato al ricorrente di aver posto in essere comportamenti contrari all’articolo 55-quater, comma 1, lettera e), del D. Lgs. 165/2001[1]inviando due esposti alla Procura della Repubblica e rappresentando uno scenario privo di fondamento, abusando del proprio ufficio al fine di ledere l’onorabilità professionale del Direttore generale e della dirigenza. Nell’ambito del secondo procedimento disciplinare (i cui dettagli esponiamo solo per completezza), invece, veniva contestato all’appellante di aver tenuto comportamenti integranti il reato di falso materiale nel rilascio di copie autentiche ai sensi dell’articolo 478 del codice penale per avere rilasciato all’avvocato che rappresentava il ricorrente nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo che era stato ottenuto per il pagamento degli onorari, di cui al primo procedimento disciplinare, una copia della determina di nomina del difensore fiduciario diversa dall’originale in quanto priva di sottoscrizione del Dirigente.
Dopo essere stati inizialmente sospesi, entrambi i procedimenti disciplinari erano stati successivamente riaperti ed erano stati giudicati dal Tribunale di Macerata, che aveva disposto la sospensione del ricorrente dal servizio e dalla retribuzione per 6 mesi. Quest’ultimo, pertanto, aveva proposto impugnazione dinnanzi alla Corte d’appello di Ancona, che tuttavia l’aveva respinta ritenendo, da un lato, che la sospensione fosse stata disposta in quanto pendeva nei suoi confronti un procedimento penale per falso connesso con i fatti per i quali si procedeva e, dall’altro, che le condotte contestate fossero effettivamente idonee a ledere l’immagine interna ed esterna della pubblica amministrazione (punto di interesse per questa analisi) nonché un regolare svolgimento dell’attività amministrativa. Di conseguenza, il ricorrente si era rivolto alla Corte di Cassazione deducendo due motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione delle disposizioni normative e contrattuali che disciplinano i presupposti legittimanti l’adozione del provvedimento di sospensione cautelare. Tale primo motivo veniva accolto[2](con conseguente cassazione della sentenza della Corte di appello).
Ai nostri fini, è particolarmente utile valutare però il secondo motivo che verteva sulla violazione e falsa applicazione dell’articolo 54 bis del D. Lgs. 165/2001. In particolare, tale disposizione intitolata “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”, al comma 1 disponeva: “… Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti o all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia…”. Secondo il ricorrente, tale disciplina avrebbe dovuto trovare applicazione rispetto all’ASUR Marche e, di conseguenza, impedire che potesse essergli irrogata la sanzione disciplinare.
A riguardo, la Cassazione ha preliminarmente ricordato che l’istituto del whistleblowing trova la sua ratio, da un lato, nel delineare un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto che segnala illeciti e, dall’altro, nel favorire l’emersione, dall’interno delle organizzazioni pubbliche, di fatti illeciti, promuovendo forme più incisive di contrasto alla corruzione, di talché un dipendente virtuoso non può essere sanzionato o sottoposto a misure discriminatorie aventi effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati alla sanzione effettuata, che deve avere ad oggetto una condotta illecita, anche se non necessariamente rilevante a livello penale[3].L’istituto del whistleblowing, pertanto, non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori[4], disciplinate da altre normative e procedure.
Ciò che, secondo la Cassazione, si verifica nel caso concreto, in quanto vi era un interesse personale nella presentazione delle denunce, dalle quali emergeva una doglianza relativa alla gestione di un contenzioso ASUR, in contrasto con le indicazioni che il ricorrente, in qualità di responsabile del procedimento, aveva fornito all’Amministrazione. Il secondo motivo di ricorso, pertanto, veniva respinto in quanto inammissibile.
In conclusione, questa pronuncia chiarisce con nettezza che l’istituto del whistleblowing non può essere strumentalizzato per finalità personali né utilizzato per risolvere controversie individuali con superiori o colleghi. La sentenza ribadisce, infatti, che le segnalazioni devono riguardare illeciti previsti dall’apposita normativa e non semplici lamentele relative al rapporto di lavoro. È fondamentale che le società sensibilizzino i dipendenti su questa distinzione, prevenendo usi impropri (e soprattutto strumentali) dello strumento e preservando il whistleblowing come canale per riportare irregolarità o violazioni di legge che possano arrecare danno all’interesse pubblico o all’integrità dell’ente o dell’organizzazione.
I principi di cui sopra, sebbene espressi nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico (dove le regole del whistleblowing sono entrate in vigore prima rispetto al settore privato), sembrano pacificamente applicabili anche nei rapporti di lavoro privati. Da ciò ne dovrebbe derivare una limitazione dell’uso improprio dello strumento in questione, sempre più spesso interpretato (dai lavoratori) quale strumento di tutela dei propri diritti squisitamente giuslavoristici, in luogo di uno strumento di repressione di condotte illecite aziendali non necessariamente legate al rapporto di lavoro in questione.
[1] Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, GU n. 106 del 09.05.2001. L’articolo 55-quater del Decreto, intitolato “Licenziamento disciplinare”, al comma 1 lettera e) dispone: “… Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi:
(…)
e) reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui…”.
[2] A tale riguardo, la Corte ha stabilito che la possibilità della sospensione facoltativa cautelare è subordinata alla pendenza di un procedimento penale a carico del lavoratore per gli stessi fatti per cui sia stato promosso il procedimento disciplinare. La pendenza del procedimento penale per gli stessi fatti contestati in sede disciplinare, inoltre, è elemento costitutivo del diritto riconosciuto al datore di lavoro, e non una mera condizione di efficacia, di talché l’esercizio del potere in difetto dei necessari presupposti richiesti dalla fonte contrattuale dà luogo ad un’invalidità dell’atto e non alla sua sola inefficacia temporanea.
[3] Cassazione sentenza n. 17715/2024.
[4] Consiglio di Stato sentenza n. 7002/2023.