In data 30 maggio 2024, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata nella Causa C‑665/22, Amazon Services Europe Sàrl contro Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, sull’interpretazione del Regolamento (UE) 2019/1150 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online[1], della Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno[2], della Direttiva (UE) 2015/1535 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 settembre 2015, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione[3], della Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno[4], nonché dell’articolo 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Tale domanda era stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Amazon Services Europe Sàrl (“Amazon”) e l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) in merito a misure adottate da quest’ultima nei confronti dei fornitori di servizi di intermediazione online.
Questi i fatti.
A seguito delle modifiche del quadro normativo nazionale derivanti dalla Legge 178/2020[5] e dalla Delibera n. 161/21[6], adottate dalle autorità italiane al fine di garantire l’applicazione del Regolamento 2019/1150, la Amazon, in quanto fornitrice di servizi di intermediazione online, è soggetta all’obbligo di trasmettere all’AGCOM l’IES, un documento in cui devono essere inserite informazioni relative alla situazione economica del fornitore. Di conseguenza, la Amazon aveva proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale (TAR) per il Lazio (il “giudice del rinvio”) che, alla luce della necessità di interpretare la normativa europea rilevante in materia, aveva deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia sei questioni pregiudiziali.
Con la prima, seconda, quarta e quinta questione, il giudice del rinvio chiedeva se l’articolo 56[7] TFUE, l’articolo 16[8] della Direttiva 2006/123 o l’articolo 3[9] della Direttiva 2000/31 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a misure adottate da uno Stato Membro, allo scopo dichiarato di garantire l’adeguata ed efficace applicazione del Regolamento 2019/1150, ai sensi delle quali, a pena di sanzioni, i fornitori di servizi di intermediazione online stabiliti in un altro Stato Membro sono obbligati, al fine di prestare i loro servizi nel primo Stato, a trasmettere periodicamente ad una sua autorità un documento relativo alla loro situazione economica, nel quale devono essere precisate numerose informazioni concernenti, in particolare, i ricavi del fornitore.
La Corte ha preliminarmente ricordato che poiché la Direttiva 2000/31 si fonda sull’applicazione dei principi del controllo nello Stato Membro di origine e del mutuo riconoscimento, i servizi della società dell’informazione sono disciplinati unicamente nello Stato Membro nel cui territorio sono stabiliti i relativi prestatori[10]. Di conseguenza, spetta a ciascuno Stato Membro di origine dei servizi della società dell’informazione disciplinare questi ultimi e tutelare gli obiettivi di interesse generale previsti dall’articolo 3, paragrafo 4, lettera a), punto i), della Direttiva 2000/31[11]. Conformemente al principio del mutuo riconoscimento, inoltre, spetta a ciascuno Stato Membro di destinazione dei servizi della società dell’informazione non limitarne la libera circolazione esigendo il rispetto di obblighi aggiuntivi, rientranti nell’“ambito regolamentato”[12], che esso avesse adottato[13]. L’articolo 3 della Direttiva 2000/31, pertanto, osta, fatte salve le deroghe autorizzate alle condizioni previste dal suo paragrafo 4, a che il prestatore di un servizio della società dell’informazione che intenda prestarlo in uno Stato Membro diverso da quello nel cui territorio è stabilito sia soggetto a prescrizioni rientranti nell’ambito regolamentato imposte da quest’ultimo.
Tutto ciò premesso, nel caso concreto le misure nazionali controverse, nei limiti in cui prescrivono, a pena di sanzioni, la trasmissione dell’IES all’AGCOM a carico dei fornitori di servizi di intermediazione online stabiliti in Stati Membri diversi dall’Italia impongono agli stessi di soddisfare condizioni che non sono richieste nel loro Stato Membro di stabilimento. Il fatto che l’obbligo di trasmettere periodicamente ad un’autorità di uno Stato Membro informazioni sulla situazione economica dell’impresa interessata, per il cui inadempimento sono comminate sanzioni, sia imposto ai fini della vigilanza, da parte di tale autorità, sulla regolarità dell’esercizio dell’attività di servizi della società dell’informazione, inoltre, non incide in alcun modo sulla portata di tale obbligo, in forza del quale i fornitori di siffatti servizi che sono stabiliti in un altro Stato Membro e che intendono prestarli nel primo Stato sono tenuti a rispettare detto obbligo. Di conseguenza, l’articolo 3 della Direttiva 2000/31 osta a misure adottate da uno Stato Membro in forza delle quali, a pena di sanzioni, i fornitori di servizi di intermediazione online, stabiliti in un altro Stato, sono obbligati, al fine di prestare i loro servizi nel primo Stato, a trasmettere periodicamente ad una sua autorità un documento relativo alla loro situazione economica, nel quale devono essere precisate numerose informazioni concernenti, in particolare, i ricavi del fornitore, salvo che le stesse non soddisfino le condizioni previste al suo paragrafo 4.
A tale riguardo, secondo la Corte le misure nazionali controverse hanno una portata generale e astratta, di talché esse non possono essere qualificate come “provvedimenti adottati per quanto concerne un determinato servizio della società dell’informazione” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 4, lettera a), della Direttiva 2000/31. Anche supponendo che le stesse mirino a garantire l’obiettivo del Regolamento 2019/1150[14], inoltre, non sussiste un nesso diretto tra quest’ultimo e quelli elencati all’articolo 3, paragrafo 4, lettera a), punto i), della Direttiva 2000/31.
Alla luce delle risposte fornite alla prima, seconda, quarta e quinta questione, la Corte ha ritenuto non necessario rispondere alla terza e alla sesta, che riguardano gli obblighi di previa notifica previsti dalle Direttive 2000/31 e 2015/1535, la cui inosservanza comporta l’inopponibilità ai privati delle misure che avrebbero dovuto essere notificate e che non sono state oggetto di notifica[15]. Di conseguenza, la Corte ha statuito che:
“L’articolo 3 della direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («direttiva sul commercio elettronico»), deve essere interpretato nel senso che esso osta a misure adottate da uno Stato membro, allo scopo dichiarato di garantire l’adeguata ed efficace applicazione del regolamento (UE) 2019/1150 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online, ai sensi delle quali, a pena di sanzioni, i fornitori di servizi di intermediazione online stabiliti in un altro Stato membro sono obbligati, al fine di prestare i loro servizi nel primo Stato membro, a trasmettere periodicamente a un’autorità di tale Stato membro un documento relativo alla loro situazione economica, nel quale devono essere precisate numerose informazioni concernenti, in particolare, i ricavi del fornitore”.
[1] GUUE L 186 dell’11.07.2019.
[2] GUUE L 178 del 17.07.2000.
[3] GUUE L 241 del 17.09.2015.
[4] GUUE L 376 del 27.01.2006.
[5] Legge 30 dicembre 2020, n. 178, Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023, GU n. 322 del 30.12.2020.
[6] Delibera AGCOM n. 161/21/CONS, Modifiche alla delibera n. 397/13/CONS del 25 giugno 2013 “Informativa Economica di Sistema”.
[7] L’articolo 56 TFUE dispone: “… Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione.
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono estendere il beneficio delle disposizioni del presente capo ai prestatori di servizi, cittadini di un paese terzo e stabiliti all’interno dell’Unione…”.
[8] L’articolo 16 della Direttiva 2006/123, intitolato “Libera prestazione di servizi”, al paragrafo 1 dispone: “… Gli Stati membri rispettano il diritto dei prestatori di fornire un servizio in uno Stato membro diverso da quello in cui sono stabiliti.
Lo Stato membro in cui il servizio viene prestato assicura il libero accesso a un’attività di servizi e il libero esercizio della medesima sul proprio territorio.
Gli Stati membri non possono subordinare l’accesso a un’attività di servizi o l’esercizio della medesima sul proprio territorio a requisiti che non rispettino i seguenti principi:
a) non discriminazione: i requisiti non possono essere direttamente o indirettamente discriminatori sulla base della nazionalità o, nel caso di persone giuridiche, della sede,
b) necessità: i requisiti devono essere giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente,
c) proporzionalità: i requisiti sono tali da garantire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito e non vanno al di là di quanto è necessario per raggiungere tale obiettivo…”.
[9] L’articolo 3 della Direttiva 2000/31, intitolato “Mercato interno”, ai paragrafi 2 e 4 dispone: “… Gli Stati membri non possono, per motivi che rientrano nell’ambito regolamentato, limitare la libera circolazione dei servizi società dell’informazione provenienti da un altro Stato membro.
(…)
Gli Stati membri possono adottare provvedimenti in deroga al paragrafo 2, per quanto concerne un determinato servizio della società dell’informazione, in presenza delle seguenti condizioni:
a) i provvedimenti sono:
i) necessari per una delle seguenti ragioni:
– ordine pubblico, in particolare per l’opera di prevenzione, investigazione individuazione e perseguimento in materie penali, quali la tutela dei minori e la lotta contro l’incitamento all’odio razziale, sessuale, religioso o etnico, nonché violazioni della dignità umana della persona;
– tutela della sanità pubblica;
– pubblica sicurezza, compresa la salvaguardia della sicurezza, e della difesa nazionale;
– tutela dei consumatori, ivi compresi gli investitori;
ii) relativi a un determinato servizio della società dell’informazione lesivo degli obiettivi di cui al punto i) o che costituisca un rischio serio e grave di pregiudizio a tali obiettivi;
iii) proporzionati a tali obiettivi;
b) prima di adottare i provvedimenti in questione e fatti salvi i procedimenti giudiziari, anche istruttori, e gli atti compiuti nell’ambito di un’indagine penale, lo Stato membro ha:
– chiesto allo Stato membro di cui al paragrafo 1 di prendere provvedimenti e questo non li ha presi o essi non erano adeguati;
– notificato alla Commissione e allo Stato membro di cui al paragrafo 1 la sua intenzione di prendere tali provvedimenti…”.
[10] CGUE 09.11.2023, Causa C‑376/22, Google Ireland e a., punto 42.
[11] Ibidem, punto 43.
[12] L’articolo 2 della Direttiva 2000/31, intitolato “Definizioni”, alla lettera h) dispone: “… Ai fini della presente direttiva valgono le seguenti definizioni:
(…)
h) “ambito regolamentato”: le prescrizioni degli ordinamenti degli Stati membri e applicabili ai prestatori di servizi della società dell’informazione o ai servizi della società dell’informazione, indipendentemente dal fatto che siano di carattere generale o loro specificamente destinati…”.
[13] CGUE 09.11.2023, Causa C‑376/22, Google Ireland e a., punto 44.
[14] Il Regolamento 2019/1150 al considerando 51 dispone: “… Poiché l’obiettivo del presente regolamento, vale a dire garantire un contesto commerciale online equo, prevedibile, sostenibile e sicuro nell’ambito del mercato interno, non può essere conseguito in misura sufficiente dagli Stati membri ma, a motivo della sua portata e dei suoi effetti, può essere conseguito meglio a livello di Unione, quest’ultima può intervenire in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del trattato sull’Unione europea. Il presente regolamento si limita a quanto è necessario per conseguire tale obiettivo in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo…”.
[15] Nello specifico, il giudice del rinvio chiedeva i) se il principio di libera prestazione di servizi di cui all’articolo 56 TFUE e l’articolo 16 della Direttiva 2006/123 e la Direttiva 2000/31 ostano all’adozione, da parte di autorità nazionali, di disposizioni che, al dichiarato fine di assicurare l’applicazione del Regolamento 2019/1150, prevedono per gli operatori, stabiliti in altro Stato Membro, oneri aggiuntivi di tipo amministrativo e pecuniario, quale la trasmissione di un’informativa contenente rilevanti informazioni sui propri ricavi, la cui violazione determina l’applicazione di sanzioni pecuniarie, e ii) se l’articolo 3, paragrafo 4, lettera b), della Direttiva 2000/31 impone agli Stati Membri di comunicare alla Commissione i provvedimenti con cui viene previsto a carico dei fornitori di servizi di intermediazione di motori di ricerca online l’obbligo di trasmissione di un’informativa contenente rilevanti informazioni sui propri ricavi, la cui violazione determina l’applicazione di sanzioni pecuniarie.