In data 11 gennaio 2024, l’Avvocato Generale Kokott ha presentato le sue conclusioni nella Causa C-46/22 P, Google LLC e Alphabet, Inc. contro Commissione europea, sul ricorso con cui la Google LLC e la Alphabet Inc. (congiuntamente “Google”) chiedevano l’annullamento della sentenza del Tribunale del 10 novembre 2021[1] che aveva confermato la sanzione inflitta loro dalla Commissione con la Decisione C(2017) 4444 final[2].
Questi i fatti.
A seguito di numerose segnalazioni da parte di imprese e consumatori, in data 30 novembre 2010 la Commissione aveva avviato un procedimento nei confronti di Google che si era concluso con la Decisione C(2017) 4444 final, con la quale era stata comminata all’impresa statunitense un’ammenda record pari a circa 2,42 miliardi di euro. Più particolarmente, secondo la Commissione Google aveva abusato della sua posizione dominante nei mercati della ricerca generale su internet e della ricerca specializzata di prodotti riservando nelle sue pagine generali dei risultati di ricerca un trattamento più favorevole, in termini di posizionamento e di visualizzazione, al proprio servizio di acquisti comparativi rispetto ai servizi dei suoi competitors, violando così l’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) nonché l’articolo 54 dell’Accordo sullo Spazio Economico Europeo (SEE). Di conseguenza, Google aveva presentato un ricorso dinnanzi al Tribunale dell’Unione, che tuttavia lo aveva respinto confermando la decisione della Commissione[3]. Google, pertanto, si era rivolto alla Corte di Giustizia deducendo quattro motivi di impugnazione.
Con il primo motivo di impugnazione, Google sosteneva che il Tribunale aveva commesso un errore di diritto e aveva indebitamente sostituito la motivazione contenuta nella Decisione C(2017) 4444 final non applicando i c.d. “criteri Bronner”[4] e dichiarandoli inapplicabili.
L’AG ha preliminarmente ricordato che i criteri Bronner possono essere imposti in presenza delle circostanze proprie di un rifiuto di accesso o di fornitura, e hanno una portata molto limitata alla luce degli obiettivi che essi perseguono[5], non potendo essere applicati in generale per constatare l’esistenza di un abuso. Di conseguenza la qualificazione, in base al diritto della concorrenza, di una discriminazione mediante autofavoritismo non può essere soggetta a criteri così rigorosi al fine di constatare l’esistenza di un abuso, in quanto ciò ridurrebbe indebitamente l’effetto utile dell’articolo 102 TFUE[6]. Al contrario, tali criteri non sono applicabili qualora un’impresa dominante conceda già l’accesso alla propria infrastruttura, o debba concederlo in forza di disposizioni in vigore, ma lo subordini a condizioni inique. Comportamenti del genere, pertanto, possono configurare una forma autonoma di abusoallorché producono effetti anticoncorrenziali almeno potenziali, o addirittura preclusivi, sul mercato interessato[7].
Tutto ciò premesso, secondo l’AG l’autofavoritismo contestato a Google costituisce una forma autonoma di abuso risultante dall’applicazione di condizioni inique di accesso ai comparatori di prodotti concorrenti, purché esso produca effetti anticoncorrenziali almeno potenziali, cui non sono applicabili i criteri Bronner. Contrariamente a quanto sostenuto da Google, infatti, nel caso concreto non vi è alcun rifiuto di accesso o di fornitura in base a questi ultimi, in mancanza dei quali non è neppure limitato in modo iniquo il diritto di proprietà di Google sull’infrastruttura del suo servizio di ricerca generale o la sua libertà contrattuale, ed ancor meno è pregiudicata la sua disponibilità ad investire o innovare. Di conseguenza, il primo motivo di impugnazione deve essere respinto.
Con il secondo motivo di impugnazione, Google sosteneva che il Tribunale aveva commesso diversi errori di diritto i) nel ritenere sufficienti gli elementi di motivazione contenuti nella Decisione C(2017) 4444 final, che si riferivano solo agli effetti probabili della pratica contestata, ma non a quest’ultima in quanto tale, per constatare la sussistenza di una deviazione dai mezzi della concorrenza basata sui meriti, e ii) nell’avvalersi di elementi supplementari che non sarebbero contenuti nella decisione stessa.
Secondo l’AG, tuttavia, il Tribunale aveva esaminato in modo approfondito la questione se la Commissione potesse correttamente concludere, nella Decisione C(2017) 4444 final, che la pratica contestata era di per sé, e non soltanto per i suoi effetti, incompatibile con i mezzi della concorrenza basata sui meriti. Più particolarmente, ciò era avvenuto in quanto il comparatore di prodotti di Google era favorito, sia nelle intenzioni che negli effetti, rispetto ai comparatori di prodotti concorrenti, trattandosi pertanto di una qualificazione in diritto, effettuata sulla base degli accertamenti di fatto esaustivi e dell’assunzione di prove da parte della Commissione, della questione se Google, in rapporto al funzionamento dei mercati digitali in questione, rispettasse i mezzi della concorrenza basata sui meriti oppure ne abusasse. Anche laddove il Tribunale dovesse aver integrato o addirittura sostituito indebitamente una parte dei motivi addotti nella Decisione C(2017) 4444 final[8], inoltre, la una qualificazione giuridica della condotta di Google in quanto tale era di per sé sufficiente a non ritenere censurabile la constatazione formulata dalla Commissione, secondo cui tale condotta si discostava dai mezzi della concorrenza basata sui meriti. Di conseguenza, gli elementi di motivazione supplementari forniti dal Tribunale non sarebbero stati necessari in tale contesto e indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica, di talché anche il secondo motivo di impugnazione deve essere respinto.
Con il terzo motivo di impugnazione, Google sosteneva che il Tribunale aveva commesso diversi errori di diritto non ritenendo censurabile l’assenza di un’analisi controfattuale nella Decisione C(2017) 4444 final, che sarebbe stata invece necessaria per dimostrare che gli asseriti potenziali effetti anticoncorrenziali erano dovuti alla pratica contestata e non ad altre circostanze. Più particolarmente, in tale decisione la Commissione avrebbe analizzato solamente gli effetti potenziali, e non quelli reali, della condotta di Google sulla concorrenza.
Secondo l’AG, tuttavia, il Tribunale non aveva errato nel ritenere che, per accertare un abuso di posizione dominante, la Commissione doveva solo dimostrare l’esistenza di effetti potenziali dovuti alla pratica in questione, non essendo dunque necessario fornire la prova dei reali effetti restrittivi sulla concorrenza. La pratica contestata, inoltre, si basa su due elementi costitutivi indissolubilmente combinati, ossia, da un lato, l’applicazione degli algoritmi specifici di aggiustamento, mediante i quali retrocedono solo i risultati di ricerca dei comparatori di prodotti concorrenti e, dall’altro, la presentazione in evidenza nelle boxes delle Shopping Units esclusivamente dei risultati di ricerca del comparatore di prodotti di Google. Tale legame indissolubile, pertanto, non può essere reciso ai fini di un’analisi controfattuale del nesso causale tra la pratica contestata e i suoi effetti (reali o potenziali), in quanto ciò non terrebbe conto degli effetti tecnici e commerciali combinati delle due componenti. Di conseguenza, il terzo motivo di impugnazione deve essere respinto.
Con il quarto motivo di impugnazione, infine, Google sosteneva che il Tribunale aveva commesso un errore di diritto nel ritenere che la Commissione non fosse obbligata ad applicare il c.d. “criterio del concorrente altrettanto efficiente” (as efficient competitor test, AEC)[9] in assenza di concorrenza sulle tariffe.
L’AG ha preliminarmente ricordato che sebbene l’articolo 102 TFUE non sia diretto a garantire che rimangano sul mercato concorrenti meno efficienti dell’impresa che detiene una posizione dominante[10], ciò non vuol dire che le stesse, che non possiedono o non sono in grado di neutralizzare le economie di scala o i vantaggi in termini di costi di quest’ultima, non siano affatto meritevoli di tutela o non svolgano alcun ruolo ai fini del mantenimento di una concorrenza efficace. Al contrario, a seconda della struttura del mercato, in particolare se vi sono elevate barriere all’ingresso, anche la presenza di un concorrente meno efficiente può intensificare la pressione concorrenziale e, in tal modo, influenzare il comportamento di un’impresa in posizione dominante[11]. Di conseguenza, il test AEC non è applicabile a livello generale, né tantomeno costituisce un presupposto indispensabile per stabilire se il comportamento di un’impresa in posizione dominante sia conforme ai mezzi della concorrenza basata sui meriti, di talché il Tribunale non era incorso in alcun errore di diritto nel negare l’esistenza di un obbligo in tal senso da parte della Commissione. Tutto ciò premesso, pertanto, anche il quarto motivo di impugnazione deve essere respinto.
[1] Tribunale 10.11.2021, Causa T-612/17, Google LLC, anciennement Google Inc. e Alphabet, Inc. contro Commissione europea.
[2] Dec. Comm. C(2017) 4444 final del 27 giugno 2017 relativa a un procedimento a norma dell’articolo 102 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dell’articolo 54 dell’accordo SEE, Caso AT.39740 – Google Search (Shopping).
[3] Per ulteriori informazioni si veda il nostro precedente contributo, disponibile al seguente LINK.
[4] CGUE 26.11.1998, Causa C‑7/97, Bronner. Nello specifico, affinché il rifiuto, da parte di un’impresa in posizione dominante, di concedere l’accesso ad un servizio possa costituire un abuso ai sensi dell’articolo 102 TFUE è necessario che i) il rifiuto possa eliminare del tutto la concorrenza nel mercato da parte del richiedente il servizio, ii) il rifiuto non sia oggettivamente giustificabile, e iii) il servizio in questione sia, di per sé, indispensabile per l’esercizio dell’attività del richiedente.
[5] CGUE 12.01.2023, Causa C‑42/21 P, Lietuvos geležinkeliai/Commissione, punto 78; CGUE 25.03.2021, Causa C‑152/19 P, Deutsche Telekom/Commissione, punto 45.
[6] CGUE 17.02.2011, Causa C‑52/09, TeliaSonera Sverige, punto 58.
[7] CGUE 25.03.2021, Causa C‑152/19 P, Deutsche Telekom/Commissione, punto 50; CGUE 25.03.2021, Causa C‑165/19 P, Slovak Telekom/Kommission, punto 50; CGUE 10.07.2014, Causa C‑295/12 P, Telefónica e Telefónica de España/Commissione, punti 75-76; CGUE 17.02.2011, Causa C‑52/09, TeliaSonera Sverige, punti 54-72.
[8] CGUE 21.01.2016, Causa C‑603/13 P, Galp Energía España e a./Commissione, punto 73; CGUE 28.09.2023, Causa C‑321/21 P, Ryanair/Commissione, punto 105; CGUE 10.04.2014, Cause riunite C‑247/11 P e C‑253/11 P, Areva e a./Commissione, punto 56.
[9] Il test AEC fa riferimento a diversi criteri utilizzati per valutare la capacità di una prassi di produrre effetti preclusivi anticoncorrenziali, facendo riferimento all’idoneità di un ipotetico concorrente dell’impresa in posizione dominante, altrettanto efficiente in termini di struttura dei costi, a proporre ai clienti una tariffa tanto vantaggiosa da indurli a cambiare fornitore, nonostante gli svantaggi generati, senza che ciò lo porti a subire perdite.
[10] CGUE 12.05.2022, Causa C‑377/20, Servizio Elettrico Nazionale e a., punto 45; CGUE 06.09.2017, Causa C‑413/14 P, Intel/Commissione, punto 134; CGUE 27.03.2012, Causa C‑209/10, Post Danmark, punti 21-22.
[11] CGUE 06.10.2015, Causa C‑23/14, Post Danmark, punto 53.