È noto come il settore tessile sia tra i più inquinanti a livello globale[1]. Si stima che sia responsabile del 10% delle emissioni di carbonio e di circa il 20% dell’inquinamento dell’acqua potabile. Inoltre, se da un lato, la produzione dei capi di abbigliamento negli ultimi anni è aumentata, dall’altro, il ciclo di vita dei prodotti tessili sembra essersi ridotto sempre di più[2], anche a causa della crescita esponenziale del c.d. fast fashion che ha velocizzato le tendenze della moda e l’aumento dei consumi.
Nell’intento di arginare (anche) tale fenomeno, alla fine del 2023, il Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo provvisorio sulla “Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce il quadro per l’elaborazione delle specifiche di progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili e abroga la direttiva 2009/125/CE” del 30 marzo 2022, 2022/0095 (COD) (“Proposta”)[3]. Obiettivo della Proposta è quello di ridurre l’impatto ambientale e stimolare l’offerta e la domanda di beni sostenibili[4]. In particolare, per quanto qui rileva, la Proposta, preso atto dell’enorme quantità di rifiuti generati dall’industria tessile[5], vieta alle imprese la distruzione di abbigliamento, accessori e calzature invendute. Restano escluse dal divieto le micro e piccole imprese.
Nell’attesa di un quadro normativo specifico, molte delle aziende del settore della moda stanno affrontando il tema, che è anche etico, degli sprechi nelle società affluenti, sperimentando modalità alternative di produzione e vendita dei prodotti, le quali spesso prevedono la partecipazione attiva del consumatore finale[6].
Sempre di più si sta facendo ricorso ai mercati secondari del c.d. second hand (anche denominato “pre-owned” o addirittura “pre-loved”). Numerose aziende, tra cui, ad esempio, Patagonia e Levi’s, hanno aperto delle piattaforme di rivendita dei propri capi acquistati in precedenza dai consumatori. La maison Valentino ha lanciato il progetto “Valentino Vintage” che consente ai clienti di riportare in alcuni store i capi acquistati in passato in cambio di crediti da spendere a seguito della valutazione del prodotto.
Alcune aziende hanno scelto di collaborare direttamente con piattaforme di rivendita di prodotti usati (quali Vinted, Vestiaire Collective e Depop). Ad esempio, LuisaViaRoma, insieme a Vestiaire Collective, nel 2022, ha predisposto un’interfaccia di rivendita che permette ai clienti di ricevere un pagamento in forma di gift card da spendere sul sito, una volta che il capo che intendono restituire abbia superato i controlli di qualità.
Altra modalità di vendita mirante ad “allungare la vita” di un prodotto è il c.d. upcycling[7], noto anche come “riuso creativo”, che permette il riutilizzo, il riciclo o la rielaborazione di un prodotto per crearne uno nuovo di qualità diversa o superiore (che va al di là del tradizionale recycling)[8]. La rielaborazione può avvenire, ad esempio, tramite la modifica del prodotto o la sua combinazione con altri.
L’upcyling può avvenire anteriormente all’immissione in vendita del prodotto (fase pre-consumer) o successivamente alla sua offerta in vendita (fase post-consumer). Nel primo caso, ad esempio, le aziende recuperano e riutilizzano i propri scarti di tessuto o altro materiale, derivanti dal processo produttivo, per confezionare un nuovo capo. Nel secondo caso, invece, si modificano prodotti già immessi sul mercato.
È in tale ultima ipotesi, che possono porsi delle potenziali criticità con riferimento alla protezione dei diritti di proprietà intellettuale, qualora siano soggetti terzi, non autorizzati dal fabbricante, a modificare o alterare i prodotti autentici e a rimetterli in vendita, in particolare, laddove il prodotto upcycled incorpori il marchio di quello originale, ingenerando quindi confusione nel consumatore sulla reale provenienza imprenditoriale. Ci si chiede, dunque, se il titolare del marchio possa opporsi alla commercializzazione del nuovo prodotto.
Ai sensi dell’art. 5 co. 1 CPI[9], qualora un prodotto contraddistinto da un marchio sia stato immesso legittimamente[10] sul mercato nel territorio dello Stato o di uno Stato membro dell’Unione europea o dello Spazio Economico Europeo, il titolare non ha più il diritto di opporsi alle ulteriori commercializzazioni. Si tratta del principio dell’esaurimento, noto anche come first sale doctrine[11].
Il co. 2 dell’art. 5 CPI[12] prevede, tuttavia, delle deroghe al principio dell’esaurimento. Infatti, in presenza di motivi legittimi, il titolare può opporsi all’ulteriore commercializzazione del prodotto dopo l’immissione sul mercato. Il co. 2 ne elenca le ipotesi tipiche, tra le quali la modificazione o alterazione del prodotto. Ricadono in tali fattispecie, ad esempio, il riconfezionamento, la rietichettatura del prodotto nonché la sostituzione del marchio da parte di soggetti terzi non autorizzati[13]. In tale prospettiva, si comprende come l’upcycling, che per sua stessa natura prevede proprio la modifica del prodotto, possa rientrare tra i motivi legittimi di cui all’art. 5 co. 2 CPI che impediscono, in astratto, l’esaurimento[14].
Il fenomeno, in Italia, è relativamente recente e non si registra ancora una giurisprudenza specifica. Tuttavia, si segnala un caso risalente in cui il Tribunale di Milano, in una fattispecie che oggi verrebbe probabilmente denominata di “upcyling”, aveva applicato proprio l’art. 5 co. 2 CPI per escludere l’esaurimento dei diritti del titolare. Il caso riguardava l’utilizzo, senza autorizzazione, da parte di una società terza, di alcuni ritagli di prodotti contraddistinti dal monogramma di una nota casa di moda. Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 17 giugno 2004[15], affermava che: “Va, altresì, esclusa l’ipotesi di esaurimento dei diritti di marchio, considerato che il prodotto finale realizzato dalla reclamante configura un nuovo manufatto, differente rispetto al pregresso oggetto portatore del segno Louis Vuitton, a suo tempo messo in commercio”. Pur non riguardando propriamente un caso di upcycling, quanto piuttosto una customizzazione, è interessante anche la più recente ordinanza del 25 luglio 2022, sempre del Tribunale di Milano[16], nella quale veniva escluso esaurimento in un caso avente ad oggetto le note calzature Dr. Martens, alterate da una società terza, tramite l’apposizione di borchie, glitter, schizzi di vernice ed inserti di tessuto, che poi venivano rivendute on-line così modificate.
Negli Stati Uniti, invece, vi sono stati diversi precedenti. In un caso recente, Louis Vuitton ha agito in giudizio nei confronti della società Sandra Ling Designs e della titolare della stessa lamentando la violazione del proprio marchio in quanto le convenute realizzavano e ponevano in vendita dei prodotti (quali borse ed accessori) utilizzando anche gli articoli di Louis Vuitton che recavano il relativo marchio[17]. Altro noto caso riguarda la maison Chanel che lamentava l’utilizzo da parte della società, Shiver & Duke LLC[18], di propri bottoni, recanti il celebre monogramma “CC”, per realizzare articoli di bigiotteria (come orecchini e braccialetti), così ingenerando confusione nel consumatore[19]. Tuttavia, entrambi i casi sono stati definiti in via stragiudiziale.
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L’impiego di modalità “alternative” di ri-uso e commercializzazione può sicuramente giovare all’obiettivo virtuoso di contenere gli effetti negativi del ciclo primario sempre più breve dei prodotti di abbigliamento, quali le emissioni di anidride carbonica, i consumi di acqua, la produzione di rifiuti e l’utilizzo di coloranti inquinanti. Tuttavia, questi nuovi modelli dell’economia circolare debbono trovare un bilanciamento con i diritti esclusivi di proprietà intellettuale dei titolari dei marchi che contraddistinguono i prodotti primari. Diversamente, vi sarà il rischio che il consumatore sia indotto in errore sull’origine imprenditoriale del prodotto secondario, o ritenga, a torto, sussistenti delle forme di collaborazione industriale o commerciale tra le aziende coinvolte. Una possibile via in tale direzione potrebbe essere la creazione diretta, da parte delle imprese titolari del prodotto primario recante il brand, di una seconda linea upcycled[20] realizzata a partire dai propri stock di articoli immessi in passato sul mercato, o in attesa di esserlo, anche mediante forme di licenza, esternalizzazione o finanche co-branding[21].
[1] L’industria tessile rappresenta la quarta industria responsabile dell’inquinamento ambientale. Per un approfondimento sul punto si veda la “Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari. Risoluzione del Parlamento europeo del 10 giugno 2023 sulla strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari” (“Strategia”), approvata il 1° giugno 2023. Da tale documento emerge come nel mondo vengano generati 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, la cui maggioranza finisce in discarica.
[2] Stando a quanto si rinviene nel sito reperibile al link https://www.europarl.europa.eu/topics/it/article/20201208STO93327/l-impatto-della-produzione-e-dei-rifiuti-tessili-sull-ambiente-infografica, tra il 2000 e il 2015, la produzione di tessile mondiale è raddoppiata, mentre la durata di utilizzo è diminuita del 36%. In generale, la tendenza è quella di utilizzare capi di abbigliamento per periodi sempre più brevi prima di dismetterli. Ogni anno vengono buttati 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili.
[3] La Proposta è reperibile al link https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2023/12/05/products-fit-for-the-green-transition-council-and-parliament-conclude-a-provisional-agreement-on-the-ecodesign-regulation/#:~:text=L’approccio%20generale%20introduce%20un,entrata%20in%20vigore%20del%20regolamento. L’11 gennaio 2024 la Commissione per l’Ambiente, la Sanità pubblica e la Sicurezza alimentare (ENVI) del Parlamento europeo ha espresso il proprio voto favorevole all’approvazione della Proposta.
[4] Il fondamento di questa iniziativa è il c.d. Green Deal europeo, una strategia globale volta a promuovere un’economia sostenibile che dovrebbe permettere all’Unione di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. La crescente attenzione per l’ambiente è testimoniata anche, a livello italiano, dalla Legge Costituzionale dell’11 febbraio 2022 n. 1, la quale ha modificato gli articoli 9 e 41 della Costituzione. In particolare, il nuovo articolo 9 prevede che la Repubblica tuteli l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni.
[5] Si legge al considerando (46) della Proposta emendata dal Parlamento europeo: “La distruzione dei prodotti di consumo invenduti, quali prodotti tessili e calzature, nonché apparecchiature o dispositivi elettrici ed elettronici, da parte degli operatori economici sta diventando un problema ambientale diffuso in tutta l’Unione, in particolare a causa della rapida crescita delle vendite online. Si tratta di una perdita di risorse economiche preziose, in quanto i beni sono prodotti, trasportati e successivamente distrutti senza mai essere utilizzati per lo scopo previsto (…)”. Tali considerazioni si rinvengono anche nella Strategia.
[6] Si tratta di iniziative che, peraltro, consentono alle imprese delle positività reputazionali, mostrandosi ai consumatori attente a tematiche sempre più sentite dalla collettività.
[7] Il primo caso di upcycling viene fatto tradizionalmente risalire al 1963, quando Heineken lanciò le “Wobo”, bottiglie di birra che, una volta svuotate, potevano essere utilizzate come mattoni da costruzione.
[8] Il fenomeno dell’upcycling si distingue dal recycling che invece consiste nel riportare allo stato di materia prima il prodotto, senza creazione di maggior valore del bene ottenuto rispetto all’oggetto o al materiale originario.
[9] Art. 5 co. 1 CPI: “Le facoltà esclusive attribuite dal presente codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo”. Il principio dell’esaurimento è disciplinato a livello europeo dall’art. 15 co. 1 della Direttiva UE n. 2436/2015 e dall’art. 15 co. 1 del Regolamento UE n. 1001/2017.
[10] Dal titolare o con il suo consenso.
[11] Si registra un ampio e durevole dibattito teorico sulla ratio dell’istituto dell’esaurimento. Per un approfondimento sul punto si veda SCUFFI-FRANZOSI, Diritto Industriale Italiano, CEDAM, Tomo Primo, pag. 56 e ss.
[12] Art. 5 co. 2 CPI: “Questa limitazione dei poteri del titolare tuttavia non si applica quando sussistano motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio”.
[13] In punto si veda, ad esempio, Trib. Milano, 20 maggio 2021, R.G. 15981/2021, in Darts-Ip.
[14] Ci si chiede pure se l’upcycling potrebbe considerarsi legittimo in virtù dell’eccezione della c.d. parodia, ossia di quella forma espressiva tramite la quale si richiama un marchio, solitamente rinomato, per finalità comiche o burlesche. Tuttavia, la giurisprudenza italiana ed europea è riluttante a riconoscere l’uso parodistico nel caso in cui il marchio parodiato venga utilizzato per finalità commerciali.
[15] Trib. Milano (ord.), 17 giugno 2004, in Darts-Ip.
[16] Trib. Milano (ord.), 25 luglio 2022, R.G. 17022/2022, in Darts-ip.
[17] Louis Vuitton Malletier SAS v. Sandra Ling Designs, Inc., 4:21-cv-00352 (S.D. Tex. Dec- 1, 2022).
[18] Chanel, Inc. v. Shiver and Duke LLC, 1:21-cv-01277-MKV (S.D.N.Y. Nov. 29, 2022).
[19] Alla fine del 2023, sempre negli Stati Uniti, Levi’s ha agito in giudizio nei confronti della società Coperni che aveva offerto in vendita, senza autorizzazione, dei pantaloni in cui erano incluse parti dei propri jeans tra cui l’etichetta rossa Levi’s e le note “ali di gabbiano”. Secondo Levi’s, il rischio era quello di indurre in confusione i consumatori sulla provenienza effettiva dei prodotti (Levi Strauss & Co. v. Coperni UK Limited, 4:23-cv-04590, N.D. Cal., Sept. 7, 2023).
[20] Alcune imprese hanno già lanciato dei prodotti o delle linee upcycled. Ad esempio, Miu Miu propone la collezione “Miu Miu Upclycled”. Si legge nel sito della società: “La quarta edizione di Miu Miu Upcycled nasce dall’interesse di Miu Miu per una moda circolare e consapevole e dall’obiettivo di dare nuova vita a capi, borse e accessori vintage, ripensati e rilavorati. Si instaura, così, una connessione tra la storia delle persone che li hanno indossati e quella di chi li aggiunge oggi nel proprio guardaroba creando un legame tra passato, presente e futuro”.
[21] Un esempio in tal senso è la collaborazione avvenuta tra Miu Miu e Levi’s.