In data 7 luglio 2022, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata nella Causa C-261/21, F. Hoffmann-La Roche Ltd e a. contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, sull’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 3, e dell’articolo 19, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione Europea (TUE) nonché dell’articolo 2, paragrafi 1 e 2, e dell’articolo 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. I quesiti pregiudiziali erano stati sollevati nell’ambito di quattro controversie tra, da un lato, F. Hoffmann-La Roche Ltd e Roche SpA (congiuntamente “Roche”), Novartis AG e Novartis Farma SpA (congiuntamente “Novartis”) e, dall’altro, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), in merito all’azione di Roche e Novartis mirante ad ottenere la revocazione della sentenza no. 4990/2019 del Consiglio di Stato (“CdS”), in quanto non conforme all’interpretazione del diritto europeo fornita dalla medesima Corte in una precedente sentenza resa a seguito di un distinto rinvio pregiudiziale promosso dal medesimo organo.
Il complesso scenario della causa può venire così sintetizzato.
In data 27 febbraio 2014, l’AGCM aveva inflitto[1] a Roche e a Novartis un’ammenda complessiva di oltre 180 milioni di euro per aver violato l’articolo 101 TFUE tramite un’intesa orizzontale restrittiva della concorrenza volta ad ottenere una differenziazione artificiosa tra i medicinali Avastin e Lucentis. Più particolarmente, nonostante fossero ambedue utilizzabili in ambito oftalmico, Roche e Novartis avevano operato per ridurre la domanda del prodotto meno costoso, l’Avastin, a favore di quello più costoso e concorrente, il Lucentis, manipolando la percezione dei rischi legati all’uso off-label del primo per la cura di patologie oftalmiche, mediante la diffusione di informazioni tali da generare preoccupazioni in merito alla sua sicurezza e così condizionare le scelte terapeutiche dei medici. Roche e Novartis avevano impugnato tale provvedimento dinanzi al Tribunale Amministrativo per il Lazio (“TAR Lazio”), che aveva respinto i ricorsi[2]. Ambedue le due imprese avevano quindi proposto appello al CdS, che aveva sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di Giustizia una serie di questioni pregiudiziali di interpretazione del diritto europeo[3].
In data 23 gennaio 2018 la Corte di Giustizia si era pronunciata nella Causa C-179/16 statuendo che la strategia collusiva posta in essere da Roche e da Novartis costituiva una restrizione della concorrenza per oggetto in quanto mirava, da un lato, ad indurre l’Agenzia Europea per i Medicinali (European Medicines Agency, EMA) e la Commissione in errore per ottenere l’aggiunta della menzione di effetti collaterali negativi nel riassunto delle caratteristiche del prodotto (RCP) dell’Avastin e, dall’altro, ad enfatizzare, in un contesto di incertezza scientifica, la percezione da parte del pubblico dei rischi connessi al suo uso off-label[4].
Riassunta la causa dinanzi al giudice nazionale, con la sentenza 4990/2019 il CdS aveva respinto gli appelli confermando la sentenza di primo grado ed il provvedimento sanzionatorio dell’AGCM[5].
Successivamente, Roche e Novartis avevano adito nuovamente il CdS con un ricorso per revocazione, deducendo, tra le altre cose, la violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia nella sentenza resa nella Causa C-179/16 inter partes, in quanto la sentenza revocanda i) aveva confermato la decisione dell’AGCM di includere nel medesimo mercato rilevante i due farmaci in causa senza tener conto delle prese di posizioni di autorità e giudici competenti che avevano accertato l’illiceità della domanda e dell’offerta dell’Avastin off-label, e ii) non aveva indagato nel merito la pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse da Roche e Novartis, sebbene essa rappresentasse un autonomo elemento costitutivo della fattispecie contestata. Le ricorrenti, inoltre, avevano chiesto di sottoporre alla Corte di Giustizia, tramite un nuovo rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE, la questione circa la compatibilità comunitaria di un meccanismo procedurale come quello risultante dal combinato disposto degli articoli 106 c.p.a.[6] e 395 e 396[7] c.p.c., nella misura in cui esso non preveda un’ulteriore speciale ipotesi di revocazione in un caso di violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale così non consentendo di prevenire la formazione di un giudicato anticomunitario[8].
Alla luce della necessità di interpretare la legislazione europea rilevante in materia, il CdS aveva ancora una volta sospeso il procedimento avanti a sé, rivolgendo alla Corte di Giustizia tre quesiti pregiudiziali.
Con il terzo quesito (esaminato per primo), il giudice del rinvio chiedeva di conoscere se l’articolo 4, paragrafo 3[9], e l’articolo 19, paragrafo 1[10], TUE nonché l’articolo 267 TFUE, letti alla luce dell’articolo 47[11] della Carta, debbano essere interpretati nel senso che ostano a disposizioni di diritto processuale di uno Stato Membro aventi per effetto che, quando l’organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa di tale Stato emetta una decisione risolutiva di una controversia nell’ambito della quale esso aveva investito la Corte di una domanda pregiudiziale ai sensi del medesimo articolo 267, le parti di tale controversia non possano domandare la revocazione di detta decisione al giudice nazionale in quanto quest’ultima avrebbe violato l’interpretazione del diritto dell’Unione già fornita dalla Corte.
La Corte ha preliminarmente ricordato che, in assenza di norme europee in materia, spetta all’ordinamento interno di ciascuno Stato Membro, in forza del principio dell’autonomia procedurale, stabilire le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali necessari ad assicurare ai singoli il rispetto del loro diritto ad una tutela effettiva, a condizione, tuttavia, che tali modalità, nelle situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione (principio di effettività)[12].
Per quanto riguarda il principio di equivalenza, l’articolo 106, paragrafo 1, c.p.a., letto in combinato disposto con gli articoli 395 e 396 c.p.c., limita la possibilità per i singoli di chiedere la revocazione di una sentenza del CdS ai casi e alle modalità ivi previste, indipendentemente dal fatto che la domanda di revocazione trovi il proprio fondamento in disposizioni di diritto nazionale oppure in disposizioni del diritto dell’Unione, di talché tale principio non è violato. Per quanto riguarda il principio di effettività, il diritto europeo non obbliga gli Stati Membri ad istituire mezzi di ricorso diversi da quelli già contemplati al livello interno, a meno che dall’impianto sistematico dell’ordinamento nazionale risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione, o che l’unico modo per adire un giudice da parte di un singolo sia quello di commettere violazioni del diritto[13]. Nel caso concreto, il diritto processuale italiano non ha, di per sé, l’effetto di rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, nel settore del diritto della concorrenza, dei diritti conferiti ai singoli dall’ordinamento dell’Unione. Pertanto, l’articolo 106, paragrafo 1, c.p.a., in combinato disposto con gli articoli 395 e 396 c.p.c., non lede neppure il principio di effettività, e non risulta contrario all’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE.
La Corte altresì osserva che, in una situazione caratterizzata dall’esistenza di un rimedio giurisdizionale che consente di garantire il rispetto dei diritti che i singoli ritraggono dal diritto dell’Unione, è da ritenersi ammissibile che lo Stato Membro interessato conferisca all’organo di ultimo grado della giustizia amministrativa la competenza a pronunciarsi in ultima istanza, tanto in fatto quanto in diritto, sulla controversia di cui trattasi[14]. Qualora, pertanto, siano invocate disposizioni di diritto europeo dinanzi ad un organo giurisdizionale nazionale, che emette la propria decisione dopo aver ricevuto la risposta alle questioni che esso aveva sottoposto alla Corte in merito alla loro interpretazione, la condizione relativa all’esistenza, nello Stato Membro interessato, di un rimedio giurisdizionale che garantisce il rispetto dei predetti diritti deve ritenersi soddisfatta; di talché tale Stato può limitare la possibilità di domandare la revocazione di una sentenza del suo organo giurisdizionale amministrativo apicale a situazioni eccezionali e tassativamente disciplinate, che non includano l’ipotesi in cui, ad avviso del singolo soccombente dinanzi al medesimo organo, quest’ultimo non abbia tenuto conto dell’interpretazione fornita dalla Corte in risposta alla sua domanda pregiudiziale. Di conseguenza, l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE non obbliga gli Stati Membri a consentire ai singoli di domandare la revocazione di una decisione giurisdizionale di ultimo grado in quanto quest’ultima violerebbe l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a una domanda pregiudiziale già formulata nel medesimo procedimento.
Tale conclusione non viene rimessa in discussione, né alla luce dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE, che per quanto riguarda i rimedi necessari ad assicurare un controllo giurisdizionale effettivo nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione non può essere interpretato nel senso che esso obbliga gli Stati Membri ad istituire nuovi rimedi[15], né alla luce dell’articolo 267 TFUE, in quanto non spetta alla Corte di esercitare, nell’ambito di un nuovo rinvio pregiudiziale, un sindacato destinato a garantire che il giudice nazionale, dopo aver investito la Corte di una domanda pregiudiziale vertente sull’interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione applicabili alla controversia, abbia applicato tali disposizioni in modo conforme alla loro interpretazione fornita dalla Corte.
Per quanto, infatti, i giudici nazionali possano rivolgersi nuovamente alla Corte prima di decidere la controversia di cui sono investiti al fine di ottenere ulteriori chiarimenti sull’interpretazione del diritto dell’Unione già da lei fornita[16], l’articolo 267 TFUE non può essere interpretato nel senso che un organo giurisdizionale nazionale possa proporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale volta a chiarire se tale organo abbia correttamente applicato nel procedimento principale l’interpretazione della Corte.
Alla luce della risposta fornita al terzo quesito, la Corte ha ritenuto non necessario rispondere al primo e al secondo, con cui il giudice del rinvio chiedeva, rispettivamente, i) se il giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, in un giudizio in cui la domanda della parte sia direttamene rivolta a far valere la violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio al fine di ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, possa verificare la corretta applicazione nel caso concreto dei principi espressi dalla Corte nel medesimo giudizio, oppure se tale valutazione spetti alla Corte stessa, e ii) se la sentenza del Consiglio di Stato no. 4990/2019 abbia violato, nel senso prospettato, i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sua sentenza del 23 gennaio 2018 in relazione tanto all’inclusione nel medesimo mercato rilevante dei due farmaci senza tener conto delle prese di posizioni di autorità che avrebbero accertato l’illiceità della domanda e dell’offerta di Avastin off-label, quanto alla mancata verifica della pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle società.
Di conseguenza, la Corte di Giustizia ha statuito che:
“L’articolo 4, paragrafo 3, e l’articolo 19, paragrafo 1, TUE nonché l’articolo 267 TFUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che non ostano a disposizioni di diritto processuale di uno Stato membro che, pur rispettando il principio di equivalenza, producono l’effetto che, quando l’organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa di tale Stato membro emette una decisione risolutiva di una controversia nell’ambito della quale esso aveva investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi del suddetto articolo 267, le parti di tale controversia non possono chiedere la revocazione di detta decisione dell’organo giurisdizionale nazionale sulla base del motivo che quest’ultimo avrebbe violato l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a tale domanda”.
La sentenza della Corte è di particolare interesse, per almeno due ragioni. In primo luogo, per avere scritto la parola fine alla saga giudiziaria Avastin/Lucentis nel merito, così fissando rigorosi limiti alla libertà d’azione commerciale delle imprese farmaceutiche, laddove il target del loro operato investa le caratteristiche di sicurezza dei farmaci e la loro percezione da parte della comunità scientifica e medica. In secondo luogo, per avere circoscritto entro limiti altrettanto rigorosi le eccezioni al principio di autonomia processuale nazionale nel rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, in particolare escludendo che, sulla scorta delle norme unionali, possa espandersi la portata dei rimedi giurisdizionali straordinari disciplinati nei singoli Stati Membri. Sembra, quindi, scritta la parola fine anche con riguardo alle correnti di pensiero che, in Italia, si erano interrogate sulla ammissibilità della creazione per via giurisprudenziale di nuovi casi di revocazione rivenienti dalla violazione del principio del primato ad opera di una sentenza di ultimo grado.
[1] AGCM, Provvedimento n. 24823 del 27.02.2014.
[2] TAR Lazio, sez. I, sentenza 2 dicembre 2014 n. 12168.
[3] Nello specifico: “… 1) Se la corretta interpretazione dell’art. 101 TFUE consenta di considerare concorrenti le parti di un accordo di licenza laddove l’impresa licenziataria operi nel mercato rilevante interessato solo in virtù dell’accordo stesso. Se, ed eventualmente entro quali limiti, ricorrendo tale situazione, le eventuali limitazioni della concorrenza del licenziante nei confronti del licenziatario, pur non espressamente previste dall’accordo di licenza, sfuggano all’applicazione dell’art. 101, par. 1 TFUE o rientrino, comunque, nell’ambito di applicazione dell’eccezione legale di cui all’art. 101, par. 3, TFUE;
2) Se l’art. 101 TFUE consenta all’Autorità nazionale a tutela della concorrenza di definire il mercato rilevante in maniera autonoma rispetto al contenuto delle autorizzazioni all’immissione in commercio (AIC) dei farmaci rilasciate dalle competenti Autorità di regolazione farmaceutica (AIFA ed EMA) o se, al contrario, per i medicinali autorizzati, il mercato giuridicamente rilevante ai sensi dell’art. 101 TFUE debba ritenersi conformato e configurato in via primaria dall’apposita Autorità di regolazione in modo vincolante anche per l’Autorità nazionale a tutela della concorrenza;
3) Se, anche alla luce delle previsioni contenute nella direttiva 2001/83 CE ed in particolare nell’art. 5 relativo all’autorizzazione all’immissione in commercio dei farmaci, l’art. 101 TFUE consenta di considerare sostituibili e di includere, quindi, nell’ambito dello stesso mercato rilevante un farmaco utilizzato off-label ed un farmaco dotato di AIC in relazione alle medesime indicazioni terapeutiche;
4) Se, ai sensi dell’art. 101 TFUE, ai fini della delimitazione del mercato rilevante, assuma rilevanza accertare, oltre alla sostanziale fungibilità dei prodotti farmaceutici dal lato della domanda, se l’offerta degli stessi sul mercato sia o meno avvenuta in conformità al quadro regolamentare avente ad oggetto la commercializzazione dei farmaci;
5) Se possa comunque considerarsi restrittiva della concorrenza per oggetto la condotta concertata volta ad enfatizzare la minore sicurezza o la minore efficacia di un farmaco, quando tale minore efficacia o sicurezza, sebbene non suffragata da acquisizioni scientifiche certe, non può, comunque, alla luce dello stadio delle conoscenze scientifiche disponibili all’epoca dei fatti, neanche essere incontrovertibilmente esclusa…”.
[4] Per ulteriori informazioni si veda il nostro precedente contributo, disponibile al seguente LINK.
[5] Per ulteriori informazioni si veda il nostro precedente contributo, disponibile al seguente LINK.
[6] L’articolo 106 c.p.a., intitolato “Casi di revocazione”, dispone: “… Salvo quanto previsto dal comma 3, le sentenze dei tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione, nei casi e nei modi previsti dagli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile.
La revocazione è proponibile con ricorso dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.
Contro le sentenze dei tribunali amministrativi regionali la revocazione è ammessa se i motivi non possono essere dedotti con l’appello…”.
[7] L’articolo 396, intitolato “Revocazione delle sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello”, dispone: “… Le sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello possono essere impugnate per revocazione nei casi dei nn. 1, 2, 3 e 6 dell’articolo precedente, purché la scoperta del dolo o della falsità o il recupero dei documenti o la pronuncia della sentenza di cui al n. 6 siano avvenuti dopo la scadenza del termine suddetto.
Se i fatti menzionati nel comma precedente avvengono durante il corso del termine per l’appello, il termine stesso è prorogato dal giorno dell’avvenimento in modo da raggiungere i trenta giorni da esso…”.
[8] Per ulteriori informazioni si veda il nostro precedente contributo, disponibile al seguente LINK.
[9] L’articolo 4 TUE al paragrafo 3 dispone: “… In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati…”.
[10] L’articolo 19 TUE al paragrafo 1 dispone: “… La Corte di giustizia dell’Unione europea comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati. Assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati.
Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione…”.
[11] L’articolo 47 della Carta, intitolato “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”, dispone: “… Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.
Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare.
A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti Ł concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia…”.
[12] CGUE 21.12.2021, Causa C‑497/20, Randstad Italia, punto 58.
[13] CGUE 21.12.2021, Causa C‑497/20, Randstad Italia, punto 62; CGUE 14.05.2020, Cause riunite C‑924/19 PPU e C‑925/19 PPU, Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság Dél-alföldi Regionális Igazgatóság, punto 143.
[14] CGUE 21.12.2021, Causa C‑497/20, Randstad Italia, punto 64.
[15] Ibidem, punto 66.
[16] CGUE 06.10.2021, Causa C‑561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, punto 38.