LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SULLA LEGITTIMITÀ DELL’ARTICOLO 17 DELLA DIRETTIVA COPYRIGHT

marketude Andrea Palumbo, EU and Competition, Intellectual Property, Litigation, Publications, Roberto A. Jacchia

In data 26 aprile 2022, la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sulla causa C-401/19[1], avente ad oggetto il ricorso di annullamento presentato dalla Repubblica di Polonia per richiedere, ai sensi dell’articolo 263 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”), l’annullamento di alcune disposizioni dell’articolo 17 della direttiva (UE) 2019/790 (la “Direttiva”)[2]. Il ricorso è stato fondato sulla presunta violazione, da parte delle contestate disposizioni dell’articolo 17 della Direttiva, della libertà di espressione e d’informazione garantita dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la “Carta”).

Con la propria sentenza, la Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla Polonia, affermando che l’obbligo, imposto dall’articolo 17 della Direttiva per i fornitori di servizi di condivisione di contenuti online, di controllare i contenuti che gli utenti intendono caricare sulle loro piattaforme prima della diffusione al pubblico, è compatibile con la libertà di espressione e d’informazione, in quanto accompagnato dalle necessarie garanzie.

La sentenza della Corte costituisce uno sviluppo importante nel diritto europeo, sotto almeno due aspetti. In primo luogo, consente di meglio comprendere i limiti entro cui sono ammesse restrizioni ai diritti fondamentali garantiti dalla Carta, e quali garanzie si rendano necessarie per assicurare la proporzionalità e la legittimità delle restrizioni imposte. In secondo luogo, la sentenza rappresenta un importante passo avanti nel dibattito sugli obblighi generali di sorveglianza imposti ai fornitori di servizi di intermediazione e alle piattaforme online, per i contenuti illegali caricati tramite i loro servizi, che ha visto contrapposte correnti di pensiero molto divaricate sui relativi benefici e rischi. Tra i rischi maggiormente menzionati, vi è la potenziale violazione della libertà di espressione ed informazione online, a causa delle attività di controllo che certi operatori sarebbero obbligati ad effettuare, e l’impatto economico sulle attività dei fornitori di servizi online, che dovrebbero sostenere costi significativi per adempiere ai propri obblighi.

Di seguito i fatti e i principali passaggi della sentenza.

Con ricorso proposto in data 24 maggio 2019, la Repubblica di Polonia aveva richiesto l’annullamento dell’articolo 17, paragrafo 4, lettera b), e dell’articolo 17, paragrafo 4, lettera c), in fine (nella parte che include le parole: “e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne il caricamento in futuro conformemente alla lettera b)”) della Direttiva. Il ricorso era stato proposto avverso il Parlamento Europeo ed il Consiglio, i co-legislatori dell’Unione che avevano adottato la Direttiva.

Come è noto, l’articolo 17 della Direttiva costituisce una disposizione fortemente controversa nei suoi risvolti relativi al diritto d’autore e ai diritti connessi nelle piattaforme online. L’articolo prevede che i fornitori di servizi di condivisione di contenuti online siano direttamente responsabili per i materiali protetti dal diritto d’autore caricati illegalmente dagli utenti dei loro servizi. Tuttavia, i fornitori interessati possono essere esonerati da tale responsabilità sempre che, tra le altre cose, sorveglino attivamente i contenuti caricati dagli utenti, così da poter prevenire la condivisione illegale di quanto i titolari non intendano rendere accessibili. Nello specifico, le disposizioni contestate richiedono che, al fine di beneficiare dell’esenzione da responsabilità, i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online dimostrino di aver compiuto i massimi sforzi per assicurare che non siano disponibili opere e altri materiali per i quali abbiano ricevuto le pertinenti informazioni dai titolari dei diritti, e dimostrino di aver altresì compiuto i massimi sforzi per impedire il caricamento in futuro di contenuti  illegali segnalati dai titolari. Il rispetto di tali obblighi è valutato alla luce del principio di proporzionalità, per cui diverse modalità di adempimento potrebbero essere richieste a seconda della tipologia, del pubblico e della dimensione del servizio, nonché della tipologia dei contenuti caricati.

La Corte ha accertato, dapprima, che le disposizioni dell’articolo potessero effettivamente costituire una limitazione del diritto fondamentale alla libertà di espressione e d’informazione, ed ha successivamente verificato se vi fossero giustificazioni tali da legittimare, conformemente alla Carta ed, in particolare, al principio di proporzionalità, l’imposizione di tale limitazione.

In relazione alla sussistenza della limitazione, la Corte ha preso in considerazione una serie di fattori.

In primo luogo, la Corte ha osservato che la condivisione di informazioni tramite una piattaforma online è un’attività che rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 11 della Carta, ed è da esso tutelata.

In secondo luogo, la Corte ha concordato con la Repubblica di Polonia che le disposizioni dell’articolo 17, comma 4, lettere b) e c), della Direttiva impongono de facto ai prestatori interessati dalla Direttiva di svolgere su base continuativa un controllo preventivo dei contenuti che gli utenti intendono caricare sulle loro piattaforme, a condizione che abbiano ricevuto le opportune informazioni e segnalazioni dai titolari dei diritti. Inoltre, la Corte ha osservato che, dato il volume di contenuti generalmente caricati dagli utenti, i prestatori sono tenuti ad utilizzare strumenti automatici di riconoscimento e filtraggio, che sono idonei ad apportare una limitazione ad un importante mezzo di diffusione di contenuti online. Di conseguenza, la Corte ha concluso che il regime di responsabilità previsto dalle disposizioni contestate dell’articolo 17 costituisce una limitazione del diritto garantito dall’articolo 11 della Carta ai prestatori interessati. A tal proposito, è da evidenziare che, secondo la Corte, la limitazione del diritto fondamentale è imputabile ai co-legislatori europei, in quanto la limitazione costituisce una conseguenza diretta del regime di responsabilità introdotto dall’articolo 17 della Direttiva.

Una volta accertata l’esistenza di una limitazione alla libertà di espressione ed informazione, la Corte ha proceduto con l’esame dell’esistenza di una sua possibile giustificazione, idonea a legittimarla in conformità all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta[3]. Quest’ultima norma stabilisce le condizioni da soddisfare per la legittimità di qualsiasi limitazione all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Carta. In buona sostanza, tali condizioni richiedono che ogni limitazione sia prevista dalla legge, rispetti il contenuto essenziale dei diritti e delle libertà affetti, e sia rispettosa del principio di proporzionalità.

Secondo la Repubblica di Polonia, la limitazione imposta dall’articolo 17 della Direttiva non avrebbe rispettato i requisiti dell’articolo 52, comma 1, della Carta, in quanto non avrebbe predisposto le opportune garanzie che consentissero di rispettare il contenuto essenziale della libertà di espressione e d’informazione ed il principio di proporzionalità nell’attuazione degli obblighi imposti ai fornitori di servizi di condivisione. In particolare, secondo la Repubblica di Polonia, l’articolo 17 della Direttiva lascerebbe a a tali fornitori “carta bianca” nella predisposizione dei meccanismi di controllo e filtraggio preliminari, senza dettare regole chiare e precise, e creerebbe una situazione in cui sarebbe impossibile evitare che anche contenuti leciti siano automaticamente disabilitati, o che la loro diffusione al pubblico sia significativamente ritardata.

Tuttavia, la Corte ha rigettato l’argomento, ed ha statuito che i co-legislatori  hanno inserito, a fianco degli obblighi dell’articolo 17 della Direttiva, delle garanzie adeguate ad assicurare il rispetto del diritto alla libertà di espressione e d’informazione in conformità all’articolo 52, comma 1, della Carta, garantendo altresì il giusto equilibrio tra tale diritto alla libertà di espressione e d’informazione tutelato dall’articolo 11 della Carta, da un lato, ed i diritti di proprietà intellettuale protetti dall’articolo 17, comma 2, della Carta, dall’altro.

Vi sono cinque ragioni addotte dalla Corte per giungere a questa conclusione.

In primo luogo, è escluso che possano essere adottate, nell’attuazione degli obblighi imposti dall’articolo 17 della Direttiva, misure che filtrano e bloccano i contenuti leciti all’atto del caricamento. Pertanto, un sistema di controllo e filtraggio automatico che non permetta di distinguere adeguatamente tra contenuti leciti e illeciti, così generando il rischio che contenuti leciti siano bloccati, non sarebbe compatibile con la Direttiva. Ciò risulterebbe dai commi 7 e 9 dell’articolo 17 della Direttiva, nonché dai considerando 66 e 70 di quest’ultima.

In secondo luogo, come previsto dai commi 7 e 9 dell’articolo 17 della Direttiva, gli utenti dei servizi di condivisione dei contenuti online sono autorizzati dal diritto nazionale a caricare contenuti coperti da eccezioni, tra cui caricatura, parodia o pastiche, e i prestatori sono tenuti ad informare i loro utenti, nei loro termini e condizioni, della possibilità di utilizzare opere e altri materiali conformemente alle eccezioni o limitazioni al diritto d’autore e ai diritti connessi previste dal diritto dell’Unione.

In terzo luogo, la responsabilità di cui all’articolo 17 della Direttiva sorge, per i prestatori di servizi di condizione dei contenuti online, solo quando i titolari dei diritti abbiano hanno fornito le informazioni pertinenti e necessarie per identificare i contenuti di cui non desiderano la diffusione. Pertanto, al di là di tali casi, i prestatori non saranno tenuti a controllare i contenuti caricati tramite i loro servizi, in tal modo limitando allo stretto necessario la limitazione alla libertà di espressione e d’informazione.

In quarto luogo, come specificato dal comma 8 dell’articolo 17 della Direttiva, non è imposto alcun obbligo generale di sorveglianza ai prestatori di servizi di condivisione di contenuti online, il che implica che essi non sono tenuti a prevenire il caricamento e la messa a disposizione del pubblico di contenuti, di cui dovrebbero loro stessi constatare l’illiceità tramite una valutazione autonoma, nonché di eventuali eccezioni e limitazioni al diritto d’autore. È importante osservare come la disposizione dell’articolo 8 sia in linea con l’articolo 15, comma 1, della Direttiva sul commercio elettronico, e con la principi stabiliti dalla Corte con la sua pronuncia nella causa Glawischnig-Piesczek[4].

In quinto luogo, l’articolo 17, comma 9, capoversi primo e secondo, della Direttiva predispone varie garanzie procedurali per gli utenti dei servizi di condivisione di contenuti online, volte a tutelare la libertà di espressione e d’informazione per i casi in cui i prestatori di tali servizi disabilitino o rimuovano per errore contenuti leciti. In particolare, gli Stati membri sono tenuti ad istituire un meccanismo di reclamo e ricorso celere ed efficace, disponibile per gli utenti dei servizi. Tali utenti devono, infatti, poter presentare un reclamo qualora ritengano che sia stato disabilitato l’accesso a contenuti da loro caricati o che tali contenuti siano stati rimossi. Inoltre, è previsto che tutti i reclami siano trattati senza indebito ritardo e siano soggetti a verifica umana.

Alla luce delle predette argomentazioni, la Corte ha concluso che i motivi addotti dalla Repubblica di Polonia non potevano essere accolti, ed ha pertanto integralmente respinto il ricorso, affermando la compatibilità delle disposizioni contestate dell’articolo 17 della Direttiva con la Carta. 

Vale la pena di osservare il percorso argomentativo seguito dalla Corte, per concludere che il sistema di garanzie dell’articolo 17 della Direttiva può assicurare che il filtraggio sia limitato alle misure illecite. Difatti, tale conclusione sembra basarsi sull’assunto che vi sarà uno scambio di informazioni tra utenti, prestatori del servizio e titolari dei diritti d’autore, e che le iniziative che le tre tipologie di attori possono intraprendere porterà ad un processo di separazione dei contenuti leciti dai contenuti illeciti. Ad esempio, da un lato i titolari dei diritti d’autore sono tenuti a comunicare le informazioni necessarie all’individuazione dei contenuti illeciti, e dall’altro i meccanismi di reclamo e ricorso possono far fronte ad eventuali errori commessi dai prestatori nella loro identificazione.

La sentenza riveste forte rilievo per il diritto dei media e dei diritti fondamentali nell’Unione, soprattutto nell’attuale momento storico in cui molteplici iniziative sono state intraprese per regolamentare la condotta delle piattaforme digitali.

Resta da vedere se, e come, questa pronuncia influirà sulle legislazioni nazionali di recepimento della Direttiva. Difatti, la Direttiva lascia significativo margine di azione agli Stati Membri, che possono definire in maniera più o meno dettagliata il funzionamento delle garanzie predisposte dall’articolo 17, da cui dipende la legittimità degli obblighi imposti ai prestatori.

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[1] Sentenza della Corte di Giustizia del 26 aprile 2022, Repubblica di Polonia contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, C-401/19, EU:C:2022:297.

[2] Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE, GUUE L 130 del 2019.

[3] L’articolo 52, paragrafo 1, della Carta così dispone: “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.”

[4] Si veda la sentenza della Corte di Giustizia del 3 ottobre 2019, Glawischnig-Piesczek, C‑18/18, EU:C:2019:821, punti da 41 a 46.